Alien: Isolation e il futuro senza luce | Frequenza Critica | The Games Machine

Alien Isolation, Dead Space, Callisto Protocol e in generale gli horror spaziali sono in grado di creare una fascinazione particolare nel giocatore: la paura di un futuro triste e pericoloso. Ma non necessariamente a causa dei mostri.

Esimi lettori, un annuncio: per poter esporre il ragionamento di oggi dovrò fare dei minimi spoiler dei giochi nominati.

Dopo tanto tempo e aspettative ecco che finalmente è arrivato Callisto Protocol. Ne è valsa la pena? Ai giocatori l’ardua sentenza, i pareri si sono rivelati contrastanti. Quello che è certo però è che ci ha dato una nuova opportunità di esplorare la fantascienza oscura. Quella dove l’umanità si è espansa verso l’infinito e oltre solo per portare lontano dalla Terra i problemi sociali, economici, spirituali mai risolti sul nostro pianeta. Quello dove tra le stelle non c’è quasi nessuno, e se qualcuno c’è, forse è meglio non incontrarlo.

C’è stato un periodo nel cinema nel quale la fantascienza luminosa, piena di speranze guidata da Star Trek aveva dei contrappesi. Film che esploravano il futuro dell’esplorazione spaziale con una punta di avvertimento più che di speranza, lontano da atmosfere di eroismo. Navi spaziali alla deriva in cui la scienza ha provato ad andare troppo oltre, mostri xenomorfi con i quali qualsiasi comunicazione è impossibile e quando non ci sono i mostri, gli umani sono più che capaci di crearsi problemi a vicenda. Tutto ciò accadeva in ambientazioni opprimenti, dal clima atmosferico ostile, in deserti, luoghi rocciosi o astronavi che lasciavano poco spazio all’arte e all’umanismo.

Screamers di Christian Duguay nel 1995, Event Horizon di Paul W.S. Anderson nel 1997, Pandorum nel 2009 di Christian Alvart, la saga di Alien iniziata da Ridley Scott e poi passata in mano a numerosi registi dipingevano un’esplorazione spaziale buia. Un’esplorazione in cui la tecnologia ha effettivamente permesso all’umanità di viaggiare tra le stelle, ma senza particolari elevazioni spirituali o sociali, anzi: da questo punto di vista gli umani del futuro sono molto vicini a quelli dei nostri tempi. E quindi, dopo aver chiaccherato dei survival horror in generale e di quelli italiani in particolare, allacciate le cinture e indossate il casco. Questa volta ho voglia di parlarvi di astronavi e stelle.

LA CITTADELLA SPAZIALE DI ALIEN ISOLATION

Ho appena finito Alien Isolation. Sì, lo so che sembra stranissimo da parte mia, ma a causa di un PC non adeguato al tempo, non lo avevo mai giocato da cima a fondo. Ora l’ho fatto e sono contento di aver avuto una seconda chance perché al primo giro, irrigidito com’ero dallo xenomorfo, mi muovevo sempre accucciato e ignoravo qualsiasi monitor che non fosse obbligatorio utilizzare. E mi stavo perdendo qualcosa. Non era lo xenomorfo, no. Quello è stato pure azzeccato anche in altre iterazioni del franchise, ma soprattutto, in questo gioco è difficile mancarlo. No, si tratta di qualcosa di più sottile. Creative Assembly ha capitalizzato sugli input del primo film introducendo un sottotesto dettagliatissimo sulla vita della Sevastopol e fuori. Un sottotesto desolante. Una vita rincorrendo un sogno spaziale che non è nemmeno mai partito. Un avamposto commerciale ambizioso che aveva già visto i suoi giorni migliori ben prima che ci arrivasse l’alieno. Una tecnologia che aiuta l’uomo, ma che non ne ha mai risolto i problemi profondi.

alien isolation

già dalla sua schermata introduttiva, alien isolation ci rende conto di quanto piccoli siano gli esseri umani

La schermata introduttiva del menu principale è già una dichiarazione d’intenti con il suo titanico KG-348, pianeta gassoso che taglia a metà lo schermo. Una parte è occupata dalla sua imponenza, l’altra metà dallo spazio profondo. Al centro, un po’ spostata, ecco la Sevastopol, enorme avamposto di estrazione e commercio, in grado di ospitare permanentemente centinaia di persone. Lungo il gioco avremo ben modo di farci un’idea di quanto la struttura fosse complessa, ma per il momento è importante osservare una cosa: di solito nella fantascienza spaziale succede il contrario, ossia il pianeta/punto d’arrivo è in lontananza e vediamo la nave dei nostri personaggi incedere verso di esso con una certa imponenza. Magari è soltanto un veicolo di soccorso, magari il loro stesso mezzo è danneggiato, ciònondimeno la tecnologia umana è protagonista, mentre lo spazio profondo è “dietro”, sullo sfondo. Qui no. Qui l’opera umana è piccolissima. Gli umani, in proporzione, sarebbero così minuscoli da essere invisibili. Il design minimale di questa schermata mette immediatamente in chiaro un messaggio: non c’è gloria qui.

alien isolation

Cosa che viene confermata leggendo gli scambi di mail rimasti sui terminali abbandonati, quei pochi che sono sopravvissuti a un guasto informatico che ha reso illeggibili molti file. La stazione è già stata abbandonata da chi la gestiva. I dirigenti della Seegson Corporation hanno cercato di ottenerne la vendita forti della loro posizione vantaggiosa e della tecnologia dei loro androidi, ma senza successo. Impariamo così brevi pezzi di storia aziendale, che credeva in un’esplorazione spaziale basata sulla costruzione di titaniche strutture abitabili, contrapposta alla Weyland-Yutani che invece vedeva il futuro attraverso la tecnologia di terraformazione, come provarono a fare nel LV-426 dell’Aliens di Cameron. Notiamo che anche i pianeti, seppur abitati, sono nominati con mere sigle, numeri da magazzino. Inizia il gioco ed ecco che ci svegliamo nella ormai iconica stanza dell’ipersonno.

NEL MONDO DI ALIEN I VIAGGI SPAZIALI SONO LUNGHI SETTIMANE, MESI; PER ALCUNI VERSI, SUONA GIÀ COME UN VIAGGIO DI SOLA ANDATA

Bianca, pulitissima, con le capsule disposte a cerchio intorno alla colonna centrale, come per connettere le menti dormienti a un qualcosa che li unisse, durante il lungo viaggio. Forse per ragioni tecnologiche, forse perché all’inizio gli umani volevano dare un simbolismo connettivo e spirituale a questa fase. A differenza di molte altre iterazioni fantascientifiche infatti, nel mondo di Alien non è possibile “teletrasportarsi” da un punto all’altro dell’universo in pochi secondi. I viaggi sono lunghi settimane se non mesi, chiedendo a chi cerca fortuna tra le stelle di lasciare indietro ciò che non possono portare con loro per molto, molto tempo. Per alcuni versi suona già a priori come un viaggio di sola andata. Raggiungiamo l’armadietto per rivestirci e infine la plancia della Torrens, la nave a cui Amanda Ripley è stata assegnata. Dopo anni, finalmente ci sono notizie della Nostromo, la nave del primo, intramontabile film. La scatola nera è stata recuperata da un equipaggio ed è stata portata in custodia proprio sulla Sevastopol.

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Quella stessa stazione che ora non risponde al contatto radio e che sembra danneggiata. Quei detriti che vi orbitano attorno silenziosamente non promettono nulla di buono. Completano il cerchio distopico alcune ispirazioni cyberpunk, quando a un certo punto della storia indagheremo direttamente sugli androidi, automi biomeccanici fatti a immagine e somiglianza degli umani, a volte del tutto indistinguibili. Il linguaggio narrativo prenderà una piccola virata da quella parte, con tanto di traduzioni in giapponese sotto le porte, atrio con i vari androidi piazzati in posizioni dimostrative, mainframe centrale che non obbedisce a comandi diretti. La ricetta per un mondo che non funziona granché è già lì, anche senza l’aiuto dello xenomorfo.

LA NAVE ALLA DERIVA DI DEAD SPACE

Dead Space di Visceral Games si rifà invece al tropo della nave alla deriva che finalmente è ricomparsa. Stavolta siamo più sulla linea di Event Horizon, il classico horror/slasher movie di Anderson, che a sua volta non fa che portare nello spazio profondo il concetto di casa o nave stregata. L’aspetto estetico dell’astronave infatti, era stato pensato per somigliare a una cattedrale. Nave che appunto, non risponde ai segnali e quindi viene organizzata la conseguente squadra di recupero. Il gioco inizia proprio qui, durante il briefing mentre la navetta dei protagonisti sfreccia nell’iperspazio.

Ma prima, è il caso di fare un discorso pregresso sul mondo di Dead Space, perché anche qui non ce la passiamo molto bene. Dopo aver esaurito le risorse sulle Terra, il senso principale dell’esplorazione spaziale era quello di ovviamente trovarle altrove. A tal proposito vengono create navi come la USG Ishimura, anche in questo caso avamposti autosufficienti completi di serre idroponiche per la coltivazioni di cibo a bordo. Tale gioiello di tecnologia è in grado di viaggiare nello spazio per lungo tempo, nonché di strappare e trasportare con sé, letteralmente, pezzi di pianeti ricchi di minerali. Il concetto di fracking applicato su scala spaziale. Isaac Clarke diventerà il nostro eroe della situazione, ma comincerà il suo viaggio come ingegnere. Quello che faceva nella vita era aggiustare queste tecnologie, forse migliorarle persino. L’idea di spaccare pianeti per estrarne minerali è in questo mondo l’assoluta normalità.

il tema centrale che dead space esplora è a misura umana

Dal punto di vista del tono, uno dei primi trailer, nonché un particolare momento del gioco, vengono accompagnati dalla ninna nanna Twinkle Twinkle Little Star a sottolineare un’atmosfera pesante eppur familiare e malinconica. I riferimenti al film di Anderson sono numerosi, dalla nave che fluttua indisturbata nello spazio, alle visioni di macabri futuri possibili, fino alle allucinazioni a bordo, connesse al passato dei personaggi. Contrariamente ad Alien e al suo mostro inaffrontabile, Dead Space offre la possibilità di un reciproco massacro verso i nemici che verranno a cercarci, ma rimane la domanda profonda sulla causa di tutto ciò. Cosa nella scienza e nella ricerca umana è andata così oltre dall’aver creato/scoperto quelle aberrazioni? Pur nell’infinito e oltre, pur con tutto il suo gusto per l’estetica splatter, il tema centrale che Dead Space esplora è a misura umana. Parte nientemeno che dal cambiamento climatico e dallo sfinimento del nostro pianeta per poi portare l’ingordigia tra le stelle.

LA PRIGIONE CON VISTA SU GIOVE DI CALLISTO PROTOCOL

Il mondo del suo erede spirituale Callisto Protocol di Striking Distance Studio non se la cava tanto meglio, visto che la premessa del gioco vede la nave del protagonista attaccata da un misterioso gruppo di pirati spaziali, e dopo l’atterraggio di fortuna vengono arrestati tanto lui quanto i criminali. Arresto che prevede l’invasivo innesto di un chip di monitoraggio proprio alla base del cranio. Presunzione di innocenza ai massimi livelli, insomma. L’ambientazione fa il resto, proponendo megastrutture di stampo industriale che non erano certo questi bellissimi habitat neanche prima degli eventi che li hanno messi a soqquadro.

In tutto ciò i protagonisti dei giochi che abbiamo nominato sono rispettivamente due ingegneri e il corrispettivo di un camionista spaziale. De-umanizzati ingranaggi in un sistema nel quale non hanno alcun controllo, al soldo di entità così onnipresenti e al tempo stesso così distanti, che spesso non hanno nemmeno un volto. Non ne hanno bisogno. Il testamento delle megacorporazioni che abitano quei mondi è già lì, i nostri beniamini ci camminano dentro tutto il tempo. La tecnologia che usano esiste grazie a loro. E forse anche il problema a cui devono sopravvivere. Similmente a come succede nella letteratura cyberpunk infatti, spesso il passaggio dei protagonisti si rivela ininfluente nel reale tessuto che muove l’universo della storia. Il loro margine d’azione è piccolo, circoscritto e spesso concludono il loro viaggio senza risposte, ma con molte domande da lasciare al lettore/spettatore/giocatore. Non sono nati eroi e non lo diventeranno, il meglio che possono fare è salvare la loro pellaccia e trovare qualche risposta sull’origine della catastrofe che stanno vivendo. Risposta che probabilmente si rivelerà utile solo a una maggiore personale consapevolezza, perché molto spesso il mondo là fuori rimarrà com’è.

E questo non è in ogni caso un problema imminente, perché nel mentre loro sono intrappolati assieme ai demoni, fisici o metaforici che siano, che popolano i gelidi colossi di ghisa costruiti per abitare le stelle. Uno schizofrenico contrasto in cui si è al tempo stesso lanciati verso l’ultima frontiera eppure intrappolati in un claustrofobico spazio con compagnie indesiderabili. Però forse è proprio grazie a questo cocktail di situazioni che l’horror spaziale affascina così tanto. Nel circoscrivere l’ambientazione in un luogo così chiuso, con l’assoluta impossibilità di fuggire a piedi e dove persino l’aria respirabile non è scontata, non resta che addentrarsi nel mistero e risolverlo. E nel mentre, riflettere su cosa lo ha creato in primo luogo.


Questo articolo è stato scritto per The Games Machine da Frequenza Critica, il blog italiano di approfondimento videoludico.

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