Iraq: a Bagdad venti di guerra civile intra

Stephen M. Walt, editorialista di ‘Foreign Policy‘ e docente di relazioni internazionali all’Università di Harvard, scriveva ieri, in un intervento dedicato al perché le guerre sono facili da iniziare e difficili da finire, che la convinzione di una guerra rapida, economica e che avrebbe prodotto un risultato decisivo fu quella che spinse, nel 1980, il leader iracheno Saddam Hussein a iniziare la guerra contro l’Iran, «credendo che la rivoluzione del 1979 avesse lasciato l’Iran vulnerabile a un attacco iracheno. La guerra che ne derivò durò otto anni e i due Stati subirono centinaia di migliaia di morti e ingenti danni economici prima di farla cessare». Seguì la prima guerra del Golfo, le rivolte interne dei musulmani sciiti, la repressione dei curdi, poi, nel marzo 2003, la seconda guerra del Golfo, ovvero invasione anglo-americana dell’Iraq, e il 13 dicembre 2003 la cattura di Saddam. Dal 2003 in avanti, la storia dell’Iraq si può sintetizzare in due parole: caos e violenza.

E’ lo stato in cui verte ancora oggi il Paese. E ieri lo si è visto chiaramente.  Le violenze scoppiate ieri nella Green Zone di Baghdad sono terminate con un bilancio(provvisorio a quanto pare) di 23 morti e 380 feriti.
Alla base degli scontri, il settarismo religioso, l’opposizione tra sciiti, maggioritari nel Paese, e la minoranza sunnita, odio che ha avuto libera uscita dopo la caduta di Saddam, quando la maggioranza sciita, oppressa per oltre due decenni dal regime di Saddam, si è sentita libera di esprimere l’odio represso da decenni, ma anche e in questo frangente soprattutto, lo scontro tra i diversi partiti sciiti per il potere.

Le elezioni di ottobre e quanto ne è seguito sono alla base degli scontri che si sono verificati ieri.
Lo scorso ottobre, infatti, il partito del leader religioso sciita Moqtada al-Sadr aveva ottenuto il maggior numero di voti alle elezioni legislative, diventando il partito il più forte nel Parlamento di Baghdad, che conta 329 membri, avendo conquistato 73 seggi, mentre i gruppi pro-iraniani avevano sofferto perdite significative.
Pur avendo la maggior parte dei seggi, al-Sadr non è riuscito a formare un governo di maggioranza, a causa di forti contrasti con i rivali sciitisostenuti dall’Irandella Coordination Framework Alliance, portando il Paese a quella che è diventata una delle peggiori crisi politiche negli ultimi anni.
I suoi parlamentari, poi, a giugno, su invito dello stesso al-Sadr, si sono dimessi dal Parlamento per protesta, dopo che al-Sadr aveva respinto la nomina di un premier proposta dal suo rivale, Coordination Framework Alliance. Il nominato, l’ex Ministro Mohammed Shia al Sudani, è considerato vicino all’avversario di al-Sadr, l’ex premier Nouri al-Maliki, sostenuto dall’Iran. Al-Maliki guida la coalizione State of Law alliance, che è una componente importante del Coordination Framework Alliance.
Il mese scorso i sostenitori di al-Sadr hannopreso d’assalto l’edificio del Parlamento. E al-Sadr ha chiesto lo scioglimento dell’assemblea e elezioni anticipate.

Due giorni fa, Moqtada al-Sadr ha dato ai partiti che siedono in Parlamento un ultimatum di 72 ore per firmare un accordo che mettesse fine alla crisi politica. Nulla è accaduto e ieri Moqtada al-Sadr a annunciato la decisione di abbandonare definitivamente la politica irachena, attaccando i suoi rivali e oppositori, accusandoli di non aver seguito il suo appello in cui esortava «tutte le parti» a lasciare i propri incarichi di potere per aiutare a risolvere lo stallo. Su Twitter, al-Sadr ha anche comunicato la chiusura di tutti gli uffici del partito, «tutte le istituzioni» legate al movimento sadrista saranno chiuse, ha scritto.
Subito dopo la comunicazione di al-Sadr, riferiscono le agenzie stampa, centinaia dei suoi sostenitori si sono riversati nella Green Zone di Baghdad con l’obiettivo di abbattere le barriere di cemento che circondano i palazzi delle istituzioni. Operazione riuscita da parte di centinaia di persone che sono riuscite a penetrare nel palazzo presidenziale cantando slogan a sostegno del religioso.
L’esercito iracheno ha risposto i manifestanti con largo uso di gas lacrimogeni e proiettili. Dopo alcune ore di scontri tra sadristi, gruppi allineati all’Iran, forze di sicurezza irachene, le forze armate hanno annunciato di aver ripreso il controllo della situazione. Sul terreno, appunto, morti e feriti.

Secondo gli osservatori locali, non è chiara la strategia di al-Sadr, da vent’anni figura centrale nella vita irachena, prima come comandante di una feroce resistenza armata contro gli americani (quelli del 2003, rimasti nel Paese fino al 2011), e poi come leader politico, schierato negli ultimi anni contro il settarismo e la corruzione a favore delle riforme, strenuo oppositore della Coordination Framework Alliance legata all’Iran.
Discendente di una celebre famiglia di notabili religiosi, votati al ‘martirio’ (sia il padre che il suocero, entrambi molto noti, furono uccisi da Saddam Hussein), il 48enne gode di un enorme sostegno popolare. Da anni è coinvoltoindirettamentenella gestione del Paese ma, allo stesso tempo, è sostenitore delle proteste anti-governative che hanno portato migliaia di persone, soprattutto giovani, a scendere in piazza contro le condizioni di vita impossibili, la corruzione, la mancanza di lavoro e di servizi.

Fervente nazionalista, acceso populista, ha un enorme seguito tra gli sciiti che lo vedono come eroe e paladino. Moqtada si mostra sempre con il turbante nero per sottolineare la linea diretta che lega la famiglia a quella del profeta Maometto.
In due decenni le sue posizioni sono cambiate di molto ma, nonostante le fasi alterne, mantiene una posizione centrale con la quale la politica irachena è costretta a fare i conti.

Il suo attivismo è figlio di una sanguinosa storia familiare: il padre, il celebre Grande Ayatollah Mohammed Sadeq Al Sadr, venne ucciso nel 1999, insieme a due fratelli di Moqtada, in un agguato imputato alle squadracce di Saddam Hussein, che è valso loro la ‘patente’ di martiri.
Quasi vent’anni prima era stato suo suocero, il Grande Ayatollah Mohammed Baqer al-Sadr, a perdere la vita, giustiziato nel 1980 per la sua opposizione a Saddam.
All’arrivo delle truppe americane, Moqtada crea l’esercito del Mahdi, che i soldati Usa imparano a conoscere fin troppo bene, cadendo sotto i colpi di sanguinosi attacchi. Una violenza che negli anni successivi tracima anche in durissimi scontri settari con i sunniti. Nel 2007 lascia il Paese e si trasferisce in un seminario teologico a Qom, in Iran, sempre mantenendo il polso della situazione e dirigendo i suoi uomini sul campo. Un ‘esiliovolontario che si conclude nel gennaio 2011, dopo aver giocato un ruolo nella nomina di Nouri al-Maliki a premier, che ripaga il suo movimento con una serie di incarichi governativi.
Dopo il ritiro delle truppe Usa, il leader sciita si esprime contro il settarismo e si concentra su un messaggio nazionalistico aperto anche a sunniti, comunisti e liberali. Nel 2014 quando l’Isis irrompe sulla scena, al-Sadr ricostituisce la sua milizia, ribattezzata ‘Brigata della pace’, e non esita a farla combattere al fianco dell’esercito iracheno nella coalizione a guida americana contro l’autoproclamato Califfato.

Nel 2018 il suo movimento Sairoon conquista più seggi di qualunque altra formazione, senza però raggiungere la maggioranza. Iniziale sostenitore di Haider al-Abadi come premier, dopo mesi di stallo si accorda con l’opposizione in favore dell’indipendente Adel Abdul Mahdi. Nonostante i tentativi di insediare un governo che affronti la situazione critica in cui versa l’Iraq, la crisi politica prosegue negli anni successivi, punteggiata da dure proteste di piazza, mentre nei palazzi del potere si cerca un’impossibile quadra tra influenze e appetiti.
Le elezioni nell’ottobre 2021 non riescono a modificare il quadro: sebbene i sadristi emergano come la fazione dominante, ottenendo il maggior numero di seggi (73), non raggiungono la maggioranza.
Dopo le violenze di ieri, Muqtada al Sadr ha iniziato uno sciopero della fame «finchè non cesseranno le violenze» in Iraq. Lo ha riferito un suo portavoce, secondo quanto scrive l’agenzia iraniana ‘Ina‘. «Sua Eminenza annuncia lo sciopero della fame fino a quando non si fermeranno la violenza e l’uso delle armi. La corruzione non dà a nessuno una giustificazione per l’uso della violenza».

Al termine della giornata di ieri, l’Iran ha chiuso il confine con l’Iraq e l’ambasciata iraniana a Baghdad ha chiesto agli iraniani attualmente in Iraq di evitare di recarsi nella capitale, così come nelle città di Kadhimiya e Samarra. L’aeroporto internazionale di Teheran ha reso noto che alcune compagnie aeree hanno cancellato i voli per Baghdad a causa della situazione.
Il portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale della Casa Bianca, John Kirby, ha definito «inquietanti» le violenze a Baghdad, e ha smentito che sia in iniziata l’evacuazione dell’ambasciata, sostenendo che non c’è indicazione che sarà necessario evacuare, almeno non in questo momento.
Il Coordination Framework Alliance, blocco che riunisce i partiti politici sciiti sostenuti dall’Iran, ha lanciato un appello al movimento di Muqtada al Sadr perchè torni al tavolo del dialogo per «lavorare con i loro fratelli con l’obiettivo di arrivare a intese che stabiliscano una chiara tabella di marcia che rispetti la legge e la Costituzione per realizzare gli interessi di questo grande popolo», ha dichiarato.

Secondo alcuni osservatori, la dichiarazione di ritiro dalla politica di al-Sadr, sarebbe stata una reazione al ritiro del leader spirituale sciitaAyatollah Kadhim al-Haeri, che conta molti dei sostenitori di al-Sadr come seguaci.
Il giorno prima,
al-Haeri aveva annunciato che si sarebbe dimesso da autorità religiosa e ha invitato i suoi seguaci a sostenere l’ayatollah iraniano Ali Khamenei, come «la persona migliore per guidare il nostro popolo e rimuovere gli aggressori», non il centro spirituale sciita nella città santa di Najaf, in Iraq. La mossa è stata un duro colpo per per al-Sadr. Nella sua dichiarazione ha detto che le dimissioni di al-Haeri «non sono state per sua volontà».
«Le
dimissioni dell’Ayatollah Kadhim al-Haeri,hanno aggiunto un tassello all’intricata situazione,portando alcuni osservatori a sostenere che il destino dell’Iraq sarà determinato non in una capitale sovrana, ma in uno dei due centri spirituali dell’Islam sciita: Najaf in Iraq e Qom in Iran», sostiene ‘The Guardian‘. «Lo spettro delle milizie più potenti del Paese coinvolte in uno scontro più ampio è apparso» chiaramente ieri con l’assalto al Parlamento iracheno «tra milizie sostenute dall’Iran e forze fedeli a Sadr, che possono contare sulla lealtà di 7 milioni di sciiti iracheni».
Si fa notare che Al-Sadr «mentre chiedeva cambiamenti globali a un sistema politico che ha ridotto l’Iraq in feudi settari, è stato accusato di soppiantare il bene nazionale con interessi costituiti. Sadr era stato uno dei principali beneficiari del sistema post-2003, sancito dall’occupazione americana dell’Iraq, e lo aveva usato per consolidare la sua autorità sui suoi seguaci e per avere un impatto sulla vita politica».

Sebbene nominalmente amico dell’Iran durante i due decenni successivi alla cacciata di Saddam Hussein, Al-Sadr ha sempre più contestato l’influenza iraniana. «Il religioso iracheno si era a lungo appoggiato ad al-Haeri su questioni spirituali e persino politiche. Tuttavia, Haeri è sembrato sfidare direttamente il diritto di al-Sadr di agire come erede del suo defunto padre, Mohammed Sadeq al-Sadr, un duro colpo per la legittimità del religioso 48enne.
Non puoi guidare con i loro nomi. In realtà non sei un sadrista anche se fai parte della famiglia dei sadristi”, ha detto Haeri, 83 anni, in una dichiarazione che i sostenitori sadristi hanno affermato essere stata forzata. La dichiarazione ha suscitato un’onda d’urto in Iraq e nella regione,che si sta preparando a una riacutizzazione tra i gruppi sciiti. Alcuni avevano persino sollevato lo spettro di una guerra civile sciita», prosegue ‘The Guardian‘.
«“In pratica è una scomunica. Moqtadr al-Sadr non è l’erede legittimo di suo padre -o di suo suocero”. “Il leader supremo è Khamenei”, ha detto un ex ambasciatore britannico in Iraq, Sir John Jenkins, circa la dichiarazione di Haeri. «“Questo detto da qualcuno che afferma di essere stato il pressioni. Il che significa che questa volta devono essere seri più stretto collaboratore religioso di suo padre. Presumo che l’Iran gli abbia esercitato enormi pressioni. Quindi la domanda è: i sadristi ascolteranno?».

«Entifadh Qanbar, un ex alto funzionario iracheno, ha affermato», ‘The Guardian‘, «che le dimissioni di Haeri e la sfida a Sadr hanno segnato un momento fondamentale nella storia dell’Iraq post-Saddam. “Prima che il padre di Moqtada morisse, disse ai sadristi di seguire al-Haeri come loro ultimo leader religioso. Così oggi quello che è successo è stato un colpo di Stato per privare se stesso e per privare Moqtada come leader del movimento sadrista. Questo è un grosso problema“. Alcuni osservatori temono che scontri prolungati metteranno alla prova la lealtà dell’esercito iracheno, che contiene un gran numero di seguaci di Sadr tra le sue fila. “I nostri fratelli nell’esercito seguiranno se il Sayed [Sadr] glielo chiederà”, ha detto un lealista sadrista, Houssam al-Badr. “Per ora, stiamo tutti aspettando istruzioni”».

Ci sono opinioni contrastanti tra gli iracheni su quali siano gli obiettivi di al-Sadr e le tattiche che impiega. Una vasta fascia di pubblico lo vede come un necessario agente di cambiamento in mezzo ai fallimenti del sistema politico iracheno.
Sarhang Hamasaeed, Direttore dei Programmi per il Medio Oriente dell’United States Institute of Peace (USIP), all’inizio di agosto, subito dopo il primo assalto al Parlamento da parte dei sostenitori di al-Sadr , ha realizzato una profonda analisi di quanto al-Sadr potesse essere determinante per il futuro del Paese.

«Il ritiro di al-Sadr dal Parlamento ha messo l’attuale Primo Ministro Mustafa al-Kadhimi e il suo governo, insieme ai partner politici e parlamentari di al-Sadr, in una situazione molto difficile e ha rafforzato l’idea che non si potesse fare affidamento su al-Sadr. Molti dei suoi rivali pensavano anche che al-Sadr avesse perso una quantità considerevole dei suoi elettori, frustrato perché non aveva formato un governo come aveva promesso loro. Non sosterrebbero al-Sadr che abbatte il sistema e innesca una guerra civile all’interno degli sciiti. Né l’establishment religioso sciita iracheno a Najaf, né la comunità internazionale, sosterrebbero una tale mossa. L’Iran, ovviamente, si opporrebbe all’esclusione dei suoi alleati dal potere e alle lotte intestine tra gli sciiti.
Nel pensiero dei rivali di al-Sadr, la guerra della Russia all’Ucraina aveva cambiato le cose. Gli Stati Uniti e l’Europa hanno bisogno dell’energia dell’Iraq. Con la capacità di produzione degli Stati del Golfo esaurita, l’Iraq potrebbe compensare e produrre di più. Quindi, hanno pensato che Washington e Bruxelles avrebbero accettato un governo quadro di coordinamento, sperando che avrebbe dato la priorità alla produzione di energia rispetto alle riforme e ad altre questioni di governance.
Alcuni attori del processo politico, che pensavano che al-Sadr potesse fare una mossa al di fuori del governo e del sistema parlamentare, credevano che avrebbe dovuto farlo prima che si formasse un nuovo governo. Altrimenti, i suoi rivali avrebbero potuto usare il potere dello Stato e delle sue forze armate contro di lui, come sospettavano che avrebbe fatto se avesse formato un governo».
I fatti di luglio hanno dimostrato infondati la gran parte di tali ragionamenti, malgrado alcuni oppositori insistessero che in realtà al-Sadr si stesse solo muovendo verso l’obiettivo finale di mantenere il potere politico, economico, religioso e sociale. «Gli appelli a sostituire o cambiare il sistema rendono nervosi i curdi e altri, perché non vi è alcuna garanzia che ciò che sarebbe seguito sarebbe stato migliore per loro».

Negli ultimi mesi si sono verificati numerosi sviluppi che potrebbero aver innescato violenti conflitti, prosegue Sarhang Hamasaeed. «Tuttavia, il sistema politico iracheno e i principali attori politici hanno dimostrato la capacità di assorbire gli shock, indicando una maggiore resilienza contro la violenza su larga scala. Sceicchi tribali, leader della società civile, commentatori dei media e il pubblico iracheno hanno chiesto ai leader politici di risolvere le loro divergenze attraverso il dialogo e di dedicarsi al servizio del popolo, invece dei propri interessi. Eppure, quella resilienza non va data per scontata e il rischio di violenza non va sottovalutato.
Nei miei incontri di giugno con un ampio spettro di leader iracheni, lamancanza di fiducia’ è stata citata come il problema chiave nello spazio politico. Ma, credo vada più in profondità perché questa sfiducia potrebbe essere affrontata attraverso il dialogo, misure di rafforzamento della fiducia e un monitoraggio efficace degli accordi. La riluttanza degli attori politici iracheni ad accettare ‘l’altroo le loro opinioni è il vero problema. Inoltre, anche quando viene raggiunto un apparente accordo, l’attuazione viene spesso additata come un altro modo per ostacolare gli obiettivi dei rivali».

«La Costituzione dell’Iraq, il contratto sociale del Paese, è fondamentale tra gli accordi che non vengono attuati secondo necessità. Nonostante i suoi difetti, la Costituzione include principi chiave, istituzioni e garanzie per un Paese democratico, pluralistico, inclusivo, stabile e pacifico. Tuttavia, attori diversi non ne implementano parti diverse,perché non le accettano o non accettano la loro interpretazione da parte di altri. Alcuni sostengono che la Costituzione sia stata scritta in circostanze malsane in mezzo a uno squilibrio di potere, e quindi dal 2005 ci sono stati diversi appelli e tentativi di modificarla. Ma questi non hanno avuto successo e probabilmente non lo avranno in futuro.
Nonostante i molti cambiamenti in Iraq, i fondamenti sono gli stessi: c’è squilibrio di potere, una continua riluttanza ad accettare l’altro e uno sforzo limitato per attuare ciò che è già stato concordato. La classe politica è distaccata dalla sofferenza dei cittadini e agisce in gran parte indifferente, nonostante la sua retorica. Mentre l’Iran, la Turchia e altri hanno una forte influenza in competizione in Iraq e l’attuale crisi offre maggiori opportunità per espandere tale influenza, è la disfunzione interna dell’Iraq che offre spazio agli altri per esercitare la propria influenza. I problemi dell’Iraq potrebbero essere risolti o mitigati se gli iracheni lavorassero meglio tra loro».

«L’Iraq resta importante per la stabilità della regione e per gli interessi di sicurezza nazionale delle potenze regionali e globali. Il Paese ha molti degli elementi necessari per un cambiamento positivo: giovani e società civile sempre più attivi, leader tribali orientati al governo, un panorama mediatico dinamico che rappresenta molti punti di vista, membri più giovani e moderati dei partiti tradizionali e il potere del Grande Ayatollah Ali al-Sistani, che si è spesso schierato con le richieste di cambiamento degli iracheni. Ma al Paese manca ancora un catalizzatore per sfruttare questi elementi. Al-Sadr sta cercando di mobilitare il maggior numero possibile seguaci,, in particolare le persone, un punto di svolta chiave nel 2018 e nel 2019. Ci sono sforzi per rompere l’attuale stallo politico, ma il profondo stallo politico dell’Iraq non sarà rotto tanto presto».

Lahib Higel, analista senior di Crisis Group per l’Iraq, in un report di inizio mese di agosto, affermava: «Le tensioni tra i partiti sciiti, che insieme detengono il maggior numero di seggi parlamentari, sono così profonde e il resto del campo politico è così frammentato che i politici potrebbero non essere in grado di concordare una soluzione di compromesso. Con i manifestanti populisti che occupano il Parlamento dalla fine di luglio, gli osservatori sono persino preoccupati che l’Iraq possa ricadere nella guerra civile. Questa volta sarebbe intra-settaria, a differenza della sanguinosa guerra settaria che ha devastato il Paese dal 2005 al 2008».
Higel evidenzia però che una guerra intra-sciita non sembra trovare molti sostenitori. «Nonostante le preoccupazioni per il rinnovato conflitto civile, c’è poco appetito per la guerra in questo frangente, in contrasto con la metà degli anni 2000. La ragione principale è che tutte le parti potrebbero perdere,poiché nessuna è abbastanza forte da eliminare i suoi rivali. Gli alti prezzi del petrolio sono un altro disincentivo, poiché tutti vogliono beneficiare delle entrate che affluiscono nelle casse statali. Né le potenze regionali che una volta volevano un Iraq instabile sono interessate a questo obiettivo ora. L’Iran si è intromesso in varia misura negli affari interni dell’Iraq dall’invasione statunitense, anche se meno apertamente da quando gli Stati Uniti hanno ucciso il comandante della forza Qods Qassem Soleimani e il leader paramilitare iracheno alleato Abu Mahdi al-Muhandis nel gennaio 2020. Tra le attuali tensioni, tuttavia, Teheran ha ha comunicato una linea rossa a tutte le fazioni sciite, minacciando di recidere i legami con chi preme per primo il grilletto.
In effetti, il modo in cui le tensioni passate sono state superate offre prove della capacità delle fazioni sciite rivali di risolvere le loro divergenze attraverso la politica, anche se accompagnate da intimidazioni o minacce di violenza».
Resta, prosegue Lahib Higel, «la fragilità del sistema politico iracheno post-2003. Sebbene le élite oligarchiche si siano riunite dopo ogni precedente elezione per spartirsi quote della torta del governo, sembrano non essere più in grado di farlo. I loro interessi principali rimangono gli stessi, vale a dire, ottenere quante più entrate statali possibile, in modo da estendere le reti di clientela di cui hanno bisogno per essere rieletti. Gli oppositori di Sadr tra le élite vedono il suo tentativo di escluderli dal governo -e impedire loro di immergersi nella pentola dei soldi del petrolio- come una sfida esistenziale».

Oggi gli scontri sono continuati tra i sostenitori di al-Sadr contro le fazioni sciite rivali sostenute dal vicino Iran. Muqtada al-Sadr ha invitato i suoi lealisti coinvolti negli scontri a ritirarsi, dando loro 1 ora di tempo per farlo.
Resta la domanda di fondo: quali sono gli obiettivi ai quali il potente religioso tende?
Si sta preparando una guerra civile intra-settaria? Oppure sono i dolori di un parto dal quale potrebbe nascere un percorso verso il risanamento dell’Iraq? Percorso di risanamento che, sostengono alcuni, tra i quali l’analista di Crisis Group, potrebbe partire da concentrare il dialogo su indire nuove elezioni.
Nuove elezioni, afferma Lahib Higel, «offrono la prospettiva di risolvere lo stallo, perché i partiti probabilmente cambieranno il sistema elettorale o almeno ridisegneranno i confini dei distretti per produrre un divario più piccolo tra i conteggi sadristi e di Framework. Inoltre, un blocco o entrambi potrebbero perdere elettori, poiché alcuni iracheni potrebbero voler esprimere disapprovazione per entrambi i campi nell’ultimo anno». A lungo termine, poi, magari con l’aiuto di attori esterni, l’Iraq dovrà affrontare una revisione costituzionale, uno scenario spesso discusso dalla rivolta di Ottobre del 2019. 

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Iraq: a Bagdad venti di guerra civile intra-sciita — L’Indro