“Sorella! Capisci o hai paura?”. Note di viaggio in Iran

(copertina di ericailcane)

Dal numero 9 (novembre 2022) de Lo stato delle città

Recita! “Or Noi volevamo invece beneficiare coloro che erano stati oppressi sulla terra, e volevamo farne i prìncipi primi, volevamo farne, di Faraone, gli eredi”. (Cor. 28:5)

Un uomo raccoglie un fascio di tessuti da un camion. Sono rettangoli di stoffa stretti e lunghi, alcuni verdi, bianchi e rossi, altri semplicemente rosa oppure celesti e splendenti. Sta scaricando bandiere. L’uomo le accumula in un deposito assieme ad altri uomini che compiono lo stesso lavoro. Per un mese le bandiere del paese verranno messe a riposo e sostituite con drappi neri e lucidi. È un lavoro mastodontico. In tutto l’Iran, infatti, le bandiere sono ovunque, milioni, di diverso colore e di diversa misura. Le più piccole sono mosse dalle correnti d’aria dentro le stazioni metro. Le più grandi invece sventolano incessantemente tutto l’anno lo stemma della nazione sopra alti pali di metallo che sovrastano le città. Ora da quei pali ondeggiano enormi lenzuola nere che al centro, spesso, portano la scritta “ya Husain”. Questo addobbo funebre sancisce l’inizio del mese sacro di Moharram, il primo del calendario islamico, e l’annuale commemorazione dell’Ashura. Quando, nel 680, Husain, figlio di Fatima e Ali, e il suo gruppo di settantadue compagni venne massacrato a Karbala, in Iraq, dai trentamila soldati di Yazid. Aveva osato rifiutarsi di siglare un patto con il califfo, poiché ingiusto e turpe.

La battaglia di Karbala è un pezzo di storia islamica documentata, e allo stesso tempo storia sacra. Un eroe valoroso sfida, senza possibilità di vittoria, un potente tiranno per sete di giustizia sociale. Da millequattrocento anni è un fondamento delle coscienze sciite. Esiste un genere teatrale specifico che ogni anno nel mese di Moharram mette in scena la tragedia, la tazie. Di fatto la prima forma di teatro persiano. Essa venne vietata durante l’epoca monarchica a causa del suo potenziale sovversivo. Basta immedesimarsi con l’Imam Husain. Individuare il proprio oppressore. E la storia è presto una memoria pericolosa.

Durante la rivoluzione iraniana, nel 1979, la battaglia di Karbala divenne infatti un vero e proprio paradigma di ribellione. Fu Ali Shariati, intellettuale iraniano socialista, a fare dell’avvenimento un modello di lotta, sotto lo slogan “ogni giorno è Ashura, ogni luogo è Karbala”. Egli distinse tra sciismo rosso, rivoluzionario, eredità dell’Imam Husain, e sciismo nero, quietista e reazionario. Ali Shariati venne ucciso nel 1977, prima del compimento della rivoluzione. Il suo contributo alle sollevazioni fu fondamentale.

UN SALOTTO IRANIANO
Giro per Enqelab Street, una delle arterie di asfalto di Teheran, alla ricerca delle opere di Shariati. In particolare cerco Islamshenasi, sociologia dell’Islam. Dalla fermata metro Enqelab, scendendo verso Teart-e Shar, sul lato destro, la strada è tappezzata di librerie. Le più sono elegantissime. Gli scaffali in legno sostengono edizioni molto attraenti. In una delle prime in cui entro il commesso mi risponde con gentile disprezzo: «Qui non vendiamo questi autori, deve provare le librerie religiose». Ma prima ancora di tentare, vengo informata da un altro commesso in un’altra libreria: «Shariati al momento è bandito nel paese». Eppure, solo a Teheran, esistono una strada e una stazione metro in onore di Ali Shariati. Sulla linea uno, la più centrale, che percorre anche la fermata Imam Khomeini. Dopo altre tre o quattro prove trovo il libro, nascosto tra i doppi scaffali di una libreria non religiosa.

In un salotto di Karaj i miei ospiti organizzano un pranzo con tutti i parenti. Sui divani barocchi disposti in cerchio viene intavolata una delle discussioni iraniane più classiche: passato monarchico contro repubblica islamica. I partecipanti si dividono in due gruppi. I più giovani sostengono il ritorno alla monarchia, pur non avendola mai vissuta. Quelli più avanti con l’età sono a favore della repubblica. Nessuno avanza una terza alternativa. E alla fine il discorso si arena sugli Stati Uniti. Perché non puoi parlare in Iran, e di Iran, se non parli anche di Stati Uniti. A molti iraniani gli Stati Uniti piacciono tantissimo, sono il modello. Ad altri fanno dannatamente schifo.

Tra i partecipanti c’è anche I., non ha più di trentacinque anni e sostiene una visione monarchica. Tra una settimana partirà per Karbala. Mi domando subito se è religioso. Cerco una categorizzazione semplice e forzata. Sbaglio. Vuole andare in Iraq per Arbaeen, il quarantesimo giorno dopo Ashura. È l’evento dell’anno per la comunità sciita. Segna la fine del lutto. I pellegrini si recano a Karbala a piedi partendo generalmente da Najaf. Ma molti partono anche da Baghdad o da altre città. Gli iraniani spesso percorrono la strada a piedi dal confine. I. va ogni anno in Iraq per Arbaeen. Mi spiega che è un «food festival!». I volontari che partecipano all’evento lungo la strada per Karbala offrono cibo e ristoro ai pellegrini. «Qualsiasi pietanza desideri, c’è! – dice – Pizza, cibo libanese, turco, italiano… ma guarda che bisogna avere uno stomaco forte». E aggiunge: «È pieno di arabi sporchi, ah!».

Non è la prima volta che sento commenti sprezzanti sugli arabi. Sono comuni anche in Iran. Mi succede anche qualche giorno dopo in un caffè. Un iraniano di mezza età mi attacca bottone. Tra una chiacchiera e l’altra si lamenta del razzismo subito da parte degli italiani in Australia. «Eh, sì». Concordo. «In Italia c’è tanto razzismo soprattutto nei confronti degli arabi e dei musulmani». Ma la contraddizione è dietro l’angolo. L’uomo controbatte: «Ma noi, noi iraniani non siamo come loro, non siamo, come dire – abbassa la voce –, fanatici». E dire che il resto del mondo pensa che gli iraniani siano arabi, appunto.

Nel salotto invece la discussione si sposta sull’Iraq. M. e R., padrone di casa e parente acquisito, sostengono che le città di Karbala e Najaf dovrebbero far parte del territorio dell’Iran. «Dopo gli anni di guerra con l’Iraq questo è il minimo». È da tempo ormai che penso che se si parla di Iran, per mettere bene a fuoco l’immagine si debba comprendere anche l’Iraq. Da una parte il legame iraniano con il suolo iracheno è nel cuore degli iraniani. Ciò è dato dalla presenza dei luoghi più sacri dello sciismo. Quest’anno per Arbaeen si sono recati in Iraq più di quattro milioni di iraniani. Dall’altra mi sembra chiaro che la guerra tra i due paesi, durata dal 1980 al 1988, abbia insinuato il pensiero fisso dell’Iraq nelle menti iraniane. In Iran l’Iraq è sulla punta della lingua. Parlo con P., ha passato i cinquanta ed è in pensione anticipata, vicina di casa della donna che mi ospita a Teheran. Non ha niente contro gli arabi, però non le piacciono gli iracheni: «Hanno fatto cose terribili agli iraniani durante la guerra». Penso che una donna irachena mi direbbe lo stesso. Mi sembra anzi che iraniani e iracheni siano stati compagni della stessa sfortuna, e che questa immagine speculare nasconda una ferita auto-inflitta. Forse si tratta solo delle generazioni che hanno vissuto quel pezzo di storia. Tuttavia, penso che i giovani non siano scollegati dalle esperienze dei propri genitori. Il passato vive in forme diverse in noi, anche quando lo rifiutiamo. In Iran ciò mi sembra più chiaro e confuso che mai.

Gli affari iraniani in Iraq sono fondamentali per l’Iran stesso, lo dimostrano i nuovi ritratti che rappresentano le autorità. Di fianco ai profili di Khomeini e Khamenei adesso appare raffigurato anche il generale Qasem Soleimani. Nel gennaio del 2020, il generale delle forze Quds, una branca della forza militare dei Sepah-e Pasdaran, è stato ucciso da un drone americano a Baghdad. Soleimani è stato una figura centrale nella gestione degli interessi iraniani in Iraq. Ora martire del paese, impone il suo sguardo severo per le strade iraniane, negli uffici pubblici. Ha occhi ovunque, alle volte anche in posti insospettabili.

GLI OCCHI DEL GENERALE
Sono ospite a casa di A. È un’adolescente di quattordici anni, vive in un sobborgo benestante a est di Teheran. È molto religiosa e quando esce porta il chador. Le piacciono molto i bambini e studia inglese da libri color pastello in cui i protagonisti dei dialoghi sono occidentali. Le chiedo se è mai stata a Karbala per Arbaeen. «Una volta». «È stato difficile?». «Sì, è stato difficile». Dopo una pausa lunga un sorriso ripete: «È stato difficile, ma è stato dolce». Sistemo il mio vestiario in camera sua. È piccola e di colore grigio. Sono presenti un armadio, un letto e una scrivania. Sopra la scrivania una mensola. Su questa spicca una piccola lavatrice rosa acceso e una macchina da cucire dello stesso colore. Catturano il mio sguardo. Sono carine. Nel frattempo poggio i miei abiti. Distolgo gli occhi dai giocattoli. Percorro tutta la mensola. Mimetizzati con il colore della stanza sono presenti quattro ritratti della stessa persona. Una foto, una targhetta, un quaderno e un portachiavi. Tutti gli oggetti raffigurano il volto grave del generale Soleimani.

Qualche giorno dopo assisto a un servizio televisivo. Sta per cominciare la scuola e i bambini comprano la cancelleria in una grande fiera. Vengono intervistati e sono felicissimi. Un bambino mostra uno dei quaderni che ha comprato. Ha dei colori accesi. Prevalgono il celeste e il rosa. Nel centro della copertina c’è un gruppo di pupazzetti da cartone animato. Sorridono e ammiccano. Al centro del gruppo, con un sorriso solo accennato, è posizionato il generale Soleimani. Nel tentativo di mimetizzarlo con lo spirito del quaderno è stato truccato con colori accesi anche lui. Guardo di nuovi i sorrisi. Sono forzati. I pupazzetti sono chiaramente a disagio. I bambini no.

A Teheran esiste un museo del tempo. È ospitato all’interno di un’antica villa di epoca qajar situata in prossimità di Vali Asr Avenue, nella parte nord della città. Pendoli, lancette e quadranti, di ottone o d’oro, sono i protagonisti del primo piano del museo. Si tratta di orologi che vanno dal diciassettesimo al ventesimo secolo. Sono pesanti anche alla vista, e di fattura prevalentemente francese. Ma anche svizzera e tedesca. Lancette europee che hanno segnato il tempo persiano. Il secondo piano, oltre a esibire gli strumenti del mestiere di orologiaio, ha una sezione di teche dedicate. In ognuna di esse vi sono due orologi da polso di celebrità iraniane. Scienziati, attori, scrittori, scrittrici. Sono orologi costosi. Omega e Cartier. Dietro gli orologi, le foto dei defunti proprietari e una descrizione del loro operato. Una teca tra queste è però diversa. In essa sono in mostra due orologi di plastica da comodino. Uno è circolare, con un quadrante celeste avvolto da un cigno bianco. L’altro è una piccola sveglia rettangolare dal quadrante bianco e dalla cassa marrone. Dietro gli orologi le foto di due ragazzi. Sono due soldati morti nella guerra con l’Iraq. Danno l’impressione di essere posizionati lì per dire “guarda, siamo tra gli uomini degni di nota di questo paese, e anche se di plastica il nostro tempo è stato prezioso tanto quanto quello d’oro”. Eppure, a me sembra che il materiale di quegli orologi abbia avuto un peso reale nella vita dei due ragazzi. Sebbene non sia abituata a pensare un militare come a un oppresso, è l’organizzazione delle teche stesse che mi fa riflettere in questo senso. Chi è in grado di possedere orologi d’oro Cartier vive a lungo e bene. Con un orologio di plastica, invece, il tuo tempo può valere quanto le tue lancette. Ai due giovani è toccato morire presto e di violenza. Probabilmente non hanno mai avuto manco un orologio da polso qualunque. O forse, ancora peggio, i loro polsi non sono mai pervenuti.  

L’IRAN É UN’ISOLA?
Percorrere gli estremi di Teheran in macchina durante il giorno richiede tanto tempo. Da est a ovest sono generalmente due ore. È colpa del traffico. Mi soffermo quindi sul paesaggio che si può guardare dal finestrino. È composto, oltre che dalle bandiere, da code di macchine, in prevalenza bianche, da motociclette e, nello sfondo, da montagne, alberi, ponti, palazzi e murales. E poi ovunque pubblicità. Una di queste mi colpisce. Due uomini, uno nero giovane e uno bianco di mezza età indossano guanti da cucina e un sorriso. Promettono di lavare i piatti. Di fatto sponsorizzano un detersivo. Il messaggio è inclusivo. Ma è del tutto falso. Esiste solo per fini di mercato. L’Iran è come il resto del mondo. Nel frattempo ai semafori gruppi di bambini afghani tentano di lavare i vetri delle macchine con acqua sporca.

Il sistema economico iraniano è al collasso. Il tasso di inflazione è una ferita che continua a sanguinare. I prezzi degli alimenti sono cari per gli stipendi medi iraniani. È da quaranta anni che il paese è sottoposto a sanzioni economiche da parte delle potenze occidentali. Tuttavia, si trova nella paradossale situazione di essere marginalizzato e allo stesso tempo dentro il sistema economico mondiale. Dalla fine degli anni Ottanta, al termine della guerra, l’Iran è andato incontro a una ristrutturazione politica neoliberale che ha avuto un effetto diretto nella struttura di classe del paese.

Dopo la rivoluzione le imprese appartenenti alla vecchia classe al potere vennero confiscate dal nuovo governo. Una parte divenne proprietà dello stato, un’altra venne invece ceduta alle fondazioni, bonyad. A partire dalla presidenza di Rafsanjani (1989-1997) e successivamente con il governo di Katami (1997-2005), molte delle imprese di proprietà dello stato subirono un processo di privatizzazione, attirando investimenti internazionali. Successivamente, durante il governo di Ahmadinejad (2005-2012), furono le bonyad e le forze militari a subire questa sorte. Le imprese private orientate verso gli investimenti internazionali sono chiaramente a favore di una politica conciliante con l’occidente. Bonyad e forze militari sono invece contrarie. Sostengono il proprio avanzamento nel mercato nazionale avvallate da Cina e Russia. Di conseguenza, le presidenze più conservatrici in questi anni hanno ostacolato i negoziati con i paesi occidentali. Al contrario, le più liberali hanno fatto il gioco delle imprese a caccia di investimenti esteri. Ciò che cambia, in realtà, sono solamente i soggetti che riescono ad accrescere il proprio capitale. Per il resto, il sistema è lo stesso. Il paese è gestito sul filo di due strategie di accumulazione di capitale in competizione. Entrambe promuovono lo sfruttamento della classe lavoratrice. Ed entrambe contribuiscono a creare povertà nel paese. Attualmente bonyad e forze militari rappresentano quasi la metà del Prodotto interno lordo iraniano. È chiara la ragione per la quale i testi di Shariati sono banditi. Un intellettuale musulmano socialista, critico del clero reazionario, è poco popolare e addirittura scomodo per gli interessi di chiunque.

Una sera in metro intrattengo una conversazione con R. È una ragazza di ventiquattro anni che fa l’ingegnere delle telecomunicazioni. Mi racconta del suo ragazzo e dei loro piani per il futuro. Studiano entrambi tedesco perché vorrebbero trasferirsi in Germania. Anche lui è laureato e lavora. In due però non riescono a pagare neanche un affitto. Mi spiega che è molto difficile costruire e assicurarsi un futuro in Iran. Il costo della vita è troppo alto. Mi vedo allo specchio. Lei mi chiede come mai sono interessata a Karbala. «Sono interessata a conoscere l’Islam, la spiritualità e il suo potere emancipatore». Parliamo di Shariati. Mi pare di capire che molti giovani iraniani guardano con sospetto tutto ciò che ha avuto a che fare con la rivoluzione. R. si lamenta anche della visione binaria di molti suoi connazionali. «Non capisco perché il discorso si articoli tra monarchia e repubblica islamica, non ha senso». Mi spiega che la società iraniana è spaccata in due: «La religiosità è accettata solo se segue l’interpretazione del governo. Se sei religioso lo puoi essere solo nelle modalità della repubblica islamica. Se invece il governo non ti piace allora devi rifiutare la religione. La tensione la puoi sentire ovunque, anche in metro. Se sei una donna con il chador tra donne che non lo portano non ti senti al sicuro, e viceversa». «Perché allora persone non religiose spesso fanno cose come andare a Karbala?». «In realtà, noi amiamo l’Islam. Imam Husain è nel nostro cuore, solo non possiamo accettare che questo discorso sia usato per controllarci, mentre nel frattempo non riusciamo ad andare avanti». La conversazione è disturbata dai venditori ambulanti. Vendono biancheria intima, spazzolini e dentifrici, asciugamani, rasoi. Un bambino cerca di vendermi un pacco di chewing-gum. Non so se ho soldi e devo scendere. Tentenno. Il bambino mi urla con voce acuta. «Sorella! Capisci o hai paura?». Abji! Mifahmi ya mitarsi? Compro il pacchetto e scendo. Sul binario gli altoparlanti della metro riproducono la voce di una donna che racconta una fiaba della buonanotte.

È passata una settimana e in Iran sono scoppiate le proteste. La morte di Mahsa Amini sotto la custodia della Gasht-e Ershad, le pattuglie di guida morale, ha acceso fuochi in tutto il paese. Cerco di capire a distanza quello che succede. Le notizie mi sembrano ovunque distorte. Nessuna analisi soddisfa la complessità che ho intuito da ciò che ho osservato e sentito. I più sostengono che siano lotte contro il velo. Non solo è un’idea semplicistica, ma è anche offensiva. Ribadisce la libertà delle donne nel sistema di valori occidentali: il velo è così insopportabile che si è disposti a rischiare la vita. Si parla del coraggio delle donne iraniane, in quanto iraniane. Si fomenta una visione in cui l’Iran appare come un’isola eccezionale. Spesso sono gli stessi iraniani a proporre come alternativa un discorso liberale. Cerco di ripercorrere i frammenti che ho accumulato. Mi parlano diversamente. Ciò che succede in Iran non mi sembra isolato da ciò che accade nel resto del mondo. Le politiche sono il frutto dei rapporti che il paese intrattiene con l’esterno. Mi pare, certamente, che il potere in Iran abbia una forma originale di insinuarsi nelle vite delle persone. Attua una sovrapposizione di discorsi e narrazioni storiche, religiose e morali. È ciò che crea contraddizioni e complessità. Ma, in realtà, questa forma è anche uno specchietto per le allodole. In occidente il nemico è il regime islamico. E in Iran, quando conviene, il potere si fortifica grazie a questa ostilità. Eppure, se si spoglia la sostanza dalla sua forma, è chiaro: il potere in Iran ha le stesse dinamiche del resto del mondo. E viceversa. Mi appare anzi che i giovani iraniani protestino per le stesse ragioni per le quali dovremmo scendere in strada noi. Riuscire a vivere il presente e assicurarci un futuro. Forse allora, esprimere solidarietà non significa tagliarsi ciocche di capelli, ma agire per smantellare l’ordine mondiale esistente. Finché non sarà così, qualsiasi cambiamento in Iran, ora o in futuro, avverrà comunque all’interno dello stesso sistema di oppressione.

Dobbiamo allora confidare attivamente nella promessa coranica. Capisci o hai paura? (rosa golestan)

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