Mistica quotidiana e cultura contemporanea: Ignazio di Loyola | La Civiltà Cattolica

La domanda sul perché per oltre 400 anni la dimensione mistica della vita di Ignazio sia stata quasi dimenticata o deliberatamente sottovalutata conduce a una storia lunga e affascinante. La sua riscoperta è in gran parte dovuta al rinnovato interesse per le fonti ignaziane originarie, già in atto all’inizio del Novecento, ma poi voluto dal Vaticano II, che gli ha dato un grande impulso. L’immagine di «Ignazio mistico» esprime la convinzione che il nucleo di ciò che lo rende degno di ammirazione è il suo rapporto con Dio, che è pure la fonte del suo insegnamento e di altre sue azioni. Suggerisce che in qualche modo tutto ciò che Ignazio ha detto, fatto o scritto può essere enigmaticamente ricondotto alle esperienze mistiche che egli ebbe a Manresa, a La Storta e a Roma.

Si trattò di «esperienze di picco» (per usare la terminologia di Abraham Maslow), che restano centrali per la comprensione del misticismo ignaziano. Ma Ignazio doveva vivere anche esperienze «non di picco», per così dire, e si rese conto che la maggioranza delle persone vive in modo non di picco per la maggior parte del tempo. Ciò non significa che tali esperienze non possano essere anche mistiche. O, per esprimere il concetto in modo più adeguato, Ignazio era un mistico non soltanto per certe esperienze di picco, ma perché il misticismo divenne per lui un modo di vivere. È questo il vero significato dell’espressione popolare «misticismo quotidiano».

Tramite la propria esperienza Ignazio ha sviluppato una sapienza che è a nostra disposizione, soprattutto, ma non esclusivamente, negli Esercizi spirituali (ES). Tuttavia tutto ciò che scopriamo, o arriviamo a comprendere, sulla mistica di Ignazio deve essere posto in dialogo con il presente. Dobbiamo rivolgere a Ignazio, ai testi e alla tradizione che ci ha lasciato domande attuali. Pertanto, qui vorremmo esplorare in che modo il misticismo ignaziano potrebbe far parte della vita degli uomini e delle donne di oggi. Quale saggezza pratica ci ha lasciato? In che modo la sua esperienza può far fronte alle nostre attuali preoccupazioni? Cominciamo facendo alcune riflessioni sulla cultura contemporanea.

Cultura

In questo contesto, per «cultura» non si deve intendere quella alta, attenta esclusivamente alle arti. La cultura piuttosto è il modo in cui un gruppo di persone vive, pensa, sente, si organizza, celebra e condivide la vita. A ogni cultura sottostanno sistemi di valori, significati e visioni del mondo, che vengono espressi pubblicamente nel linguaggio, nei gesti, nei simboli e nei rituali. A tale significato più ampio della cultura si riferiva Paolo VI quando affermava che «la rottura tra Vangelo e cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca».

Ci siamo ormai resi conto che, nel bene e nel male, non possiamo prescindere dalla cultura. Essa è onnipresente, pervasiva. Le sue immagini invadono i nostri sensi. Le sue idee riempiono le nostre menti. La cultura è come l’aria che respiriamo, e può essere sana o inquinata. Per la maggior parte del tempo non siamo consapevoli dell’influsso che essa esercita su di noi. La cultura ci fornisce surrettiziamente molti dei nostri preconcetti, ovvero quelle credenze e convinzioni in apparenza così innate in noi che raramente, se non mai, ci viene in mente di metterle in discussione. La cultura è come una lente che può schiarire o distorcere, senza che ce ne rendiamo conto. Inoltre, guardare costantemente attraverso questa lente può portarci alla convinzione che il nostro sia l’unico modo di vedere.

La cultura contemporanea in Occidente, sebbene a suo tempo sia stata plasmata dalla fede cristiana, spesso esclude ogni fede religiosa dai suoi valori riconosciuti. La fede viene liquidata come una superstizione che ogni persona farà bene a superare. Essa viene anche presentata come fonte di divisione sociale. Agli occhi di molti nostri contemporanei, la Chiesa non è un interlocutore credibile riguardo alla vita umana. Nella migliore delle ipotesi, le viene concessa un’accoglienza con riserva nell’ambito accademico.

Postmodernismo

Il postmodernismo è la corrente culturale oggi dominante nel mondo occidentale. Indica un sofisticato sistema filosofico, ma anche un clima di opinioni, una visione del mondo irriflessa che coinvolge tutti. Non è un fenomeno completamente negativo. C’era bisogno di ridimensionare l’arroganza della modernità: per esempio, la fiducia nell’inevitabilità del progresso e lo statuto quasi infallibile del metodo scientifico. Il postmodernismo introduce un’ermeneutica del sospetto anche nelle nostre certezze più care. La decostruzione si è insediata nel nostro mondo, e può darsi che, paradossalmente, abbia un effetto purificatore sulla fede religiosa.

Ma, purtroppo, l’elemento più strettamente legato a tale filosofia è un estremo scetticismo, che porta a una forma radicale di relativismo. Il suo principio basilare è che la verità è tutto ciò che è vero per me. C’è la mia verità e la tua verità, entrambe intrinsecamente soggettive, ma non c’è alcuna verità oggettiva che possa imporsi o interpellare ciascuno di noi.

Inoltre, nel postmodernismo non c’è più alcuna possibilità di una metanarrazione, di una storia archetipica, di un mito o di un sistema di credenze che riescano a dare significato a tutte le dimensioni della vita umana. Quindi, il cristianesimo è insidiato, perché intende proclamare tale metanarrazione, una buona notizia che offre significato, anzi salvezza, a ogni persona, in ogni situazione. I cristiani oggi si ritrovano nella confluenza di due antitetici presupposti: l’uno proveniente dalle loro convinzioni di fede, l’altro dalla cultura dominante. Lo scontro tra queste opposte visioni del mondo avviene e si avverte sia nella società in generale sia nella vita interiore di ogni singola persona. Quella rottura tra cultura e Vangelo, a cui si riferiva Paolo VI, attraversa i nostri cuori, le nostre menti e le nostre sensibilità.

L’angoscia del XVI secolo

Le radici del misticismo ignaziano affondano in un contesto storico diverso dal nostro, e tuttavia paragonabile al nostro per flui­dità, transizione e incertezza. Nel XVI secolo si compì il passaggio da una visione del mondo tardomedievale alla prima modernità, proprio come noi abbiamo sperimentato una transizione dalla tarda modernità al postmoderno. L’incertezza che regnava nel Cinquecento dipendeva da molte cause: l’inquietudine filosofica e religiosa suscitata dal Rinascimento; i disordini politici e le guerre continue; la scoperta delle civiltà extraeuropee e dei loro valori culturali; la paura dell’islam, incarnato dall’espansionismo turco; la Riforma protestante e la conseguente disgregazione della Chiesa occidentale. Antiche certezze venivano messe in discussione; la gente si sentiva alla deriva in un mondo sconosciuto.

Mentre Ignazio attraversava il suo lungo periodo di conversione – prima a Loyola, poi a Manresa –, i suoi pensieri si concentravano sulla propria odissea personale, sulla ricerca di senso e di Dio. Egli sperimentò un’angoscia profonda, e questo lo portò sull’orlo del suicidio. Il dolore, la paura, il vero e proprio panico erano opprimenti. Suggeriamo di collocare il suo calvario personale all’interno del dramma di un’intera cultura alla ricerca di un significato. Ignazio non ne era certo consapevole, ma dentro di lui si stava in qualche modo svolgendo la lotta della cultura cinquecentesca. Proprio come oggi lo scontro con il significato della nostra cultura postmoderna contemporanea si manifesta all’interno di ciascuno di noi.

«Weltanschauung»

Ignazio era immerso in una Weltanschauung, una «visione del mondo» teocentrica, una concezione di tutta la realtà che poneva Dio al centro. Ne erano all’origine in parte la sua eredità culturale e religiosa medievale e in parte le sue esperienze mistiche a Manresa. La sua rappresentazione immaginativa più chiara negli Esercizi spirituali è la «Contemplazione dell’Incarnazione» (cfr ES 101-109), il cui scopo è condurre la persona a immedesimarsi nello sguardo amorevole che la Trinità rivolge al mondo e ai suoi abitanti, cioè a vedere il mondo dal suo Centro. Questo sguardo amoroso rivela qualcosa della realtà di Dio, ma, più immediatamente, mostra l’appassionato coinvolgimento di Dio nella creazione. Esso diventerà presto ancora più esplicito attraverso l’Incarnazione del Verbo nel grembo di Maria. È una storia drammatica, che ha Dio come protagonista.

Per Ignazio, questa visione teocentrica del mondo era l’unico modo per comprendere la realtà. Ma, nonostante quello che i pensatori successivi avrebbero potuto affermare, questa visione del mondo non sottovalutava la creazione o l’umanità. Al contrario, essa ha ispirato a Ignazio un profondo apprezzamento della persona e dei valori umani, nonché un grande rispetto per il cosmo. A Manresa, egli aveva ricevuto una profonda intuizione del mistero della creazione: «Una volta gli si rappresentò nell’intelletto, insieme con intensa gioia spirituale, il modo con cui Dio aveva creato il mondo. Gli pareva di vedere una cosa bianca dalla quale uscivano raggi di luce, ed era Dio che irradiava luce da quella cosa». Dio ha voluto la creazione. Essa non poteva che essere una cosa buona, e l’umanità molto buona.

Qualche tempo dopo, sulla riva del Cardoner, Ignazio ricevette un’ulteriore illuminazione: «E mentre stava lì seduto, gli si aprirono gli occhi dell’intelletto: non ebbe una visione, ma conobbe e capì molti princìpi della vita interiore, e molte cose divine e umane; con tanta luce che tutto gli appariva come nuovo».

Se Ignazio in precedenza aveva visto come Dio ha creato il mondo, allora gli fu dato di comprendere i segreti di tale mondo. Egli venne illuminato sulle complessità dello spirito umano, sui misteri della fede e sulle cose umane. Che cosa intende Ignazio per «cose umane» (letras)? Dal momento che le distingue sia dalle «cose divine» sia dai «princìpi della vita interiore», esse devono significare la cultura secolare. È sorprendente che l’apprendimento secolare possa entrare a far parte di un’esperienza mistica. Eppure è lì che esso prende posto accanto a temi spirituali e di fede o si intreccia con essi.

Ignazio: un umanista?

Quando Ignazio si trasferì da Manresa al mondo intellettuale di Alcalá, Salamanca e Parigi, e più tardi ai circoli ecclesiastici di Roma, scoprì che il suo pensiero era perlopiù in grande accordo con l’umanesimo rinascimentale. Allora questo costituiva il movimento culturale ed educativo più influente in Europa. Ma, a questo riguardo, possiamo evidenziare anche alcune ambiguità. Per quanto Ignazio accettasse i valori pedagogici rinascimentali, le sue convinzioni religiose fondamentali rimanevano radicate in un’epoca precedente. Egli non si è mai spostato dalla sua visione del mondo teocentrica verso quella antropocentrica assunta dalla maggior parte degli umanisti. Eppure, all’interno della sua visione teocentrica del mondo, ha dato pieno valore all’umano. Associare la dignità di ogni persona umana a un Dio creatore non diminuisce tale dignità, bensì l’accresce. L’essere umano è fatto a immagine e somiglianza di Dio: può mai esserci una dignità più grande? Ne consegue che nulla di umano è meramente umano; nessuna impresa umana, per quanto secolare, è meramente secolare. Viviamo in un universo di grazia, e l’azione divinizzante di Dio non si arresta mai, e tantomeno conosce ostacoli.

È questa combinazione di una visione del mondo medievale e teocentrica con un’accorta adesione al pensiero rinascimentale che conferisce alla concezione di Ignazio il suo carattere unico. Ciò appare già negli Esercizi spirituali e giustifica la decisione di Ignazio di proseguire gli studi universitari.

«Studia humanitatis»

Lo storico americano William Bouwsma, scrivendo sulla teoria rinascimentale dell’istruzione, la contrappone al sistema scolastico medievale: «L’istruzione scolastica si era preoccupata principalmente di formalizzare e di sistematizzare le verità generali, presumibilmente oggettive e immutabili, della filosofia naturale (cioè delle scienze), della metafisica e della teologia dogmatica. Ma quelli che alla fine del XIV secolo vennero definiti studia humanitatis avevano un obiettivo completamente diverso: si interessavano ai singoli esseri umani, ai loro pensieri, valori e sentimenti mutevoli, e all’interazione umana nella società».

Questa affermazione corrisponde alla mentalità con cui Ignazio concepisce gli Esercizi spirituali. Nel darli, egli si interessa:

– «ai singoli esseri umani» (la relazione unica di ogni persona con Dio, la direzione spirituale individuale);

– «ai loro pensieri, valori e sentimenti mutevoli» (l’accento posto sui movimenti interiori dell’esercitante, su consolazione e desolazione, sull’esame, sulla ripetizione della preghiera);

– «all’interazione umana nella società» (di nuovo l’esame, ma soprattutto l’elezione, intesa come scelta, da parte dell’esercitante, di una propria particolare modalità di inserimento nel mondo delle persone e degli eventi).

Da un lato, questo mostra che Ignazio abbraccia i valori umanistici, adattandoli abilmente al suo scopo e facilitandone lo sviluppo negli esercitanti. Dall’altro lato, durante tutto questo processo – inevitabilmente focalizzato sulla persona umana – Dio rimane al centro della visione globale del mondo. Nell’elezione, che è esercizio della libertà umana, si cerca «la volontà di Dio»; tutto il resto è relativo.

Umanità di Cristo

Ma dove si colloca Cristo? Basta una semplice lettura degli Esercizi spirituali per capire quanto essi siano profondamente cristocentrici. Ed essere cristocentrici è, né più né meno, un altro modo di essere teocentrici. La cristologia di Ignazio è una cristologia dall’alto, che parte dal Verbo preesistente, che si fa carne. Eppure, è significativo il fatto che negli Esercizi spirituali l’umanità di Gesù diventi il punto focale delle contemplazioni evangeliche. Un chiaro esempio è il primo preludio alla «Chiamata del re temporale». Qui ci viene chiesto di «vedere con l’immaginazione le sinagoghe, le città e i paesi attraverso i quali Cristo nostro Signore predicava» (ES 91). L’immagine è quella di una persona umana (Gesù di Nazaret) tra altre persone in luoghi umani (sinagoghe, città e paesi), che compie atti umani (camminare e predicare).

È interagendo in modo contemplativo con questo Gesù umano durante la Seconda settimana che, nel raccoglimento del suo ritiro spirituale, l’esercitante si avvia, attraverso un discernimento guidato, verso un’elezione-scelta, ossia verso un atto anch’esso profondamente umano. E la divinità, nelle successive contemplazioni della Terza e Quarta settimana – sia che si nasconda, come durante la passione, sia che si manifesti, come nella risurrezione –, opera sempre questo suo nascondersi o manifestarsi nell’umanità di Gesù e per suo tramite.

Divinizzazione

Durante il Rinascimento si esaltava l’uomo, e lo scopo della vita era quello di essere pienamente umani. Ignazio era d’accordo con tale concezione, nella misura in cui l’essere umano non venisse esaltato in senso riduttivo, e non restasse separato da Dio. Per lui, il vero valore dell’umano derivava proprio dall’essere immerso in Dio. Il destino della persona umana non è soltanto l’autotrascendenza, ma la divinizzazione. L’umano è il campo dell’attività di Dio, e l’umanità di Cristo è lo strumento privilegiato dell’impegno di Dio nel nostro mondo. Infatti, è in Gesù che si attua ciò che attesta che essere pienamente umani è essere divini.

Anche la nostra umanità può diventare uno strumento nelle mani di Dio, mettendosi totalmente a sua disposizione. Nella quinta annotazione degli Esercizi spirituali l’esercitante viene esortato a offrire «tutta la propria volontà e libertà, in modo che la divina maestà possa disporre di lui e di quanto possiede secondo la sua santissima volontà» (ES 5). E nelle Costituzioni sant’Ignazio scrive che il gesuita diviene instrumentum coniunctum cum Deo («uno strumento congiunto con Dio»): uno strumento non inerte o passivo, ma pienamente vivo, perché divinizzato dallo Spirito Santo. Diventare tale strumento è l’obiettivo del misticismo quotidiano.

Un atteggiamento contemplativo

Negli Esercizi spirituali Ignazio aiuta l’esercitante a diventare una persona contemplativa, un mistico. Si può ben dire che il fine degli Esercizi è l’elezione, ma è altrettanto vero che essi sono anche una scuola di preghiera e un’iniziazione alla contemplazione. Senza contemplazione, infatti, non ci può essere vera elezione. Si tratta di due realtà intrinsecamente legate tra loro.

Sappiamo che gli esercizi della Seconda, Terza e Quarta settimana sono contemplazioni della vita di Cristo. Tuttavia, attraverso le risonanze che i misteri evangelici evocano in coloro che vi si addentrano, essi diventano anche contemplazioni della vita di chi li pratica. Ignazio insiste affinché gli esercitanti riflettano su se stessi e traggano frutto da ciò che vedono e ascoltano (contemplano) nella preghiera. Se Karl Barth ci incoraggiava a studiare la teologia con la Bibbia in una mano e un quotidiano nell’altra, Ignazio ci ha esortati a fare gli Esercizi con la Bibbia in una mano e le nostre esperienze di vita nell’altra.

In effetti, ciò potrebbe avvenire anche senza che vi sia stata una decisione consapevole da parte nostra. Se viviamo bene la dinamica degli Esercizi, questa assimilazione, nelle nostre concrete esistenze umane, della vita di Cristo avverrà spontaneamente. La nostra contemplazione sarà, secondo la felice espressione del teologo americano Walter Burghardt, «un lungo sguardo amoroso al reale». Ci accosteremo ai misteri della vita di Cristo e alle nostre esperienze con lo stesso sguardo contemplativo. Avrà luogo così una sorta di reciprocità, per cui osserveremo l’esperienza esistenziale di Cristo attraverso la lente della nostra, e la nostra esperienza vitale attraverso la lente di Cristo.

Questa è la conditio sine qua non per una buona e sana elezione. Il nostro mondo e la nostra vita sono la materia prima di ogni elezione, mentre Cristo, la sua vita e il suo insegnamento ne costituiscono il paradigma e la norma. Queste due realtà devono andare insieme e devono interagire. Questo è il compito della contemplazione: lo sguardo compassionevole e amoroso che abbraccia al tempo stesso Dio rivelato in Cristo e noi stessi, fatti a immagine e somiglianza di Dio. Una simile contemplazione è l’unica via che conduce a far sì che la nostra decisione finale venga presa sotto la guida dello Spirito, unendoci più strettamente a Cristo e vivendo così la nostra vita in armonia con la volontà di Dio.

«Contemplazione per raggiungere l’amore»

Consideriamo ora l’esercizio in cui l’atteggiamento contemplativo è forse più esplicito, sebbene presenti un metodo diverso da quello per entrare nelle scene evangeliche. Parliamo della «Contemplazione per raggiungere l’amore» (cfr ES 230-237). La sua dinamica è nota: io vengo invitato a considerare i benefici che ho ricevuto da Dio, quelli che condivido con gli altri (la creazione, la redenzione), e in particolare quelli che mi riguardano. Soprattutto, «quanto egli [Dio] desidera darsi a me, in tutto quello che può, secondo la sua divina disposizione». Questo mi spinge a dare me stesso a Dio: «Prendi, o Signore, e accetta…». Poi rifletto sul Dio che vive nei doni di Dio: in ogni aspetto della creazione, nell’umanità di Cristo, in me stesso (fatto a immagine e somiglianza di Dio, io sono quindi, propriamente, tempio di Dio). «Prendi, Signore, e accetta…». A questo punto considero l’operato di Dio per me nei suoi doni e attraverso di essi: Dio è all’origine di ogni cosa e le dà energia in una creazione continua. «Prendi, o Signore, e accetta…». Infine, mi apro allo stupore per tutti questi doni che scendono dall’alto (de arriba), «come i raggi discendono dal sole, le acque dalla sorgente». Qui Ignazio richiama la consapevolezza delle mie qualità e virtù personali, che partecipano delle qualità e delle virtù analoghe in Dio, e – almeno implicitamente – del mio essere totale, che partecipa dell’essere di Dio. Di nuovo, in risposta, prego: «Prendi, o Signore, e accetta…».

Ciascuno dei quattro «punti» di questo esercizio mira ad aprire gli esercitanti a ricevere grazie contemplative. E tuttavia le fa desiderare non soltanto qui e ora nell’ambiente degli Esercizi, ma giorno per giorno nella vita che li attende. Quella vita deve diventare progressivamente sempre più integrata attraverso una capacità crescente di trovare Dio in ogni aspetto della creazione e in ogni fase della storia personale. Verso la fine dell’ Autobiografia, Ignazio, ormai uomo maturo, dice di sé: «Era sempre andato crescendo in devozione, cioè nella facilità di trovare Dio. E adesso molto più che nella vita passata. E poteva trovare Dio in qualunque momento lo desiderasse».

Questo è l’orizzonte che ci attira. Per Ignazio, trovare Dio in tutte le cose non è il punto di partenza, ma il risultato di una vita spesa alla ricerca di Dio, una vita di misticismo quotidiano. Trovare Dio in tutte le cose non è il punto di partenza nemmeno per noi, ma il nostro obiettivo. Questa grazia richiede in noi molta purificazione, illuminazione e, quasi certamente, sofferenza, prima di divenire capaci di riceverla. Se affermiamo prematuramente di riuscire a trovare Dio in tutte le cose, è più probabile che non stiamo trovando Dio, ma noi stessi. O, in altre parole, troviamo un dio fatto a nostra immagine piuttosto che il Dio trascendente rivelato in Gesù Cristo. Questa esperienza allora è demoniaca, piuttosto che divina. Di qui l’esigenza cruciale del discernimento, soprattutto come lo insegnano le Regole per il discernimento della Seconda settimana (cfr ES 328-336), quelle regole più sottili che aiutano a smascherare il demonio quando appare come un angelo di luce.

«Il grande silenzio»

Il documentario di Philip Gröning sulla vita nel monastero della Grande Chartreuse, intitolato Il grande silenzio (2005), è stato considerato una tra le narrazioni di spiritualità più affascinanti e poetiche che siano mai state ideate. Anzi, è più una contemplazione che un documentario. I gesuiti, insieme ad altri che seguono la tradizione ignaziana, hanno potuto notare una profonda consonanza con la propria spiritualità vedendo questo film quasi interamente privo di parole. Come spiegare questo paradosso? Com’è possibile che persone dedite a una vita di ministero attivo nel mondo restino così commosse da un ritratto di monaci la cui vocazione è di ritirarsi da questo mondo? Che cosa sta al centro di questa strana affinità?

Secondo noi, al centro di questa affinità c’è il valore che sia la spiritualità ignaziana sia quella certosina attribuiscono all’interiorità. La cella certosina – piccola casetta a due piani con giardino recintato – simboleggia in modo concreto questa interiorità. Il monaco vive nella sua cella per coltivare l’interiorità e così trovare Dio. I seguaci di Ignazio portano la loro «cella» nel cuore, entrandovi con il raccoglimento e con la preghiera. Anch’essi coltivano l’interiorità, ma nel contesto molto diverso costituito dall’essere inseriti nel mondo.

Il cardinale Carlo Maria Martini, gesuita, alla domanda su quale messaggio potesse trasmettere Ignazio al terzo millennio, ha risposto: «Mi pare che un dato emerga su tutti gli altri: quello del valore dell’interiorità. Intendo con questo termine tutto quanto riguarda l’ambito del cuore, delle intenzioni profonde, delle decisioni che partono dal di dentro».

«Interiorità» è un eccellente sinonimo, compendiato in una parola, di «misticismo quotidiano». La conoscenza di sé, la purificazione del cuore, il cammino interiore, la ricerca del proprio centro, del punto fermo, queste e altre idee o immagini simili sono sempre state presenti nella tradizione spirituale cristiana. Esse riecheggiano – ma al tempo stesso oltrepassano – l’antico insegnamento filosofico greco attribuito a Socrate: «Una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta». Nell’esperienza cristiana tutto questo è legato alla preghiera: non soltanto al recitare preghiere, ma a pregare con il cuore, pregare in ogni momento, diventare uomini e donne di preghiera. Potremmo allora parafrasare Socrate così: «La vita senza preghiera non è degna di essere vissuta».

Interiorità controculturale

Per illustrare l’interiorità, oggi non basta semplicemente affermare che essa è sempre stata una parte costante della tradizione spirituale cristiana. Va aggiunto che essa è l’antidoto a tutto ciò che nella nostra società contemporanea c’è di insidiosamente distruttivo. La diffusione del materialismo, la velocità della vita, le pressioni competitive, la seduzione del consumismo, la minaccia dei cambiamenti climatici per il nostro Pianeta, il potente controllo mentale dei mass media e di internet, l’invadenza della pubblicità, questi e altri influssi modellano il nostro modo di vivere.

L’attivismo sostituisce la riflessività, l’ansia rimpiazza la serenità, e il desiderio di gratificazione immediata soppianta l’attenzione premurosa verso gli obiettivi a lungo termine, soprattutto quelli dello spirito. Anche la qualità delle nostre relazioni più preziose viene spesso messa in pericolo. Siamo spinti verso un vivere epidermico, alla superficie delle cose, e così perdiamo il contatto con il nostro io più profondo e reale. Sorprendentemente, alla domanda: «Che cosa vuoi veramente?» (opposta a: «Che cosa ti piace?»), spesso è difficile rispondere.

L’interiorità, o misticismo quotidiano, non è una fuga dal nostro ambiente culturale e dagli aspetti dannosi dell’influsso che esso ha su di noi. L’interiorità non è solipsistica e nemmeno egocentrica. Al contrario, essa è il prerequisito per il nostro inserimento nel mondo delle relazioni, della cittadinanza attiva e della pastorale cristiana. Determina la qualità della nostra presenza nel mondo, la fecondità e l’efficacia dell’influsso che possiamo esercitarvi. Ricordiamo che il cardinale Martini parla dell’interiorità come dell’ambito del cuore, delle intenzioni profonde, delle decisioni che partono dal di dentro. Ha in mente le persone che attraversano una vita umana piena con tutte le sue fatiche e le sue sfide, ma la vivono nel profondo del proprio io, assumendosi la responsabilità delle proprie scelte, portando i valori del Vangelo nella società, facendosi guidare dallo Spirito che abita in loro.

Come diceva Agostino, Dio è intimior intimo meo, abita dentro di me più in profondità del mio stesso io interiore. Nei recessi nascosti della nostra anima il Creatore incontra la creatura, lo Spirito divino incontra lo spirito umano. La consapevolezza di questo mistero e l’apertura a esso sono l’essenza del misticismo quotidiano, che non è un fenomeno occasionale, ma uno stile di vita. Il noto aforisma di Karl Rahner, secondo cui «il cristiano del futuro o sarà un mistico o non sarà neppure cristiano», giunge qui a proposito. Dovrebbero tenerlo presente non soltanto quanti cercano Dio, ma tutti coloro che si stanno impegnando per rinnovare la Chiesa e per migliorare il mondo.

Copyright © La Civiltà Cattolica 2022
Riproduzione riservata

***

Mistica quotidiana e cultura contemporanea: Ignazio di Loyola | La Civiltà Cattolica