Quali no hai detto, nella vita?

Illustrazione di Carlotta Gasperini

percorsi

Francesca Guercio

Non ho prenotato una seduta di campane tibetane.
Non ho iniziato a condividere frasi di Igor Sibaldi sui social.
Non ho consumato rapporti sessuali occasionali.
Non ho cercato di imparare a cucinare.
Non ho sottoscritto un abbonamento a Netflix.
Non ho contattato la parrocchia per unirmi ai missionari in Somalia.

Quando ho preso atto che stavo invecchiando, che ero single per scelta di un altro, che sapevo svolgere un mucchio di lavori diversi e li svolgevo, in effetti, da decenni senza che il mio conto in banca superasse mai le tre cifre mi sono riposizionata lungo una strada facilmente descrivibile attraverso i non.

Forse perché tra le tante cose che sapevo fare e, in effetti, facevo potevo annoverare le seguenti: recitare ma non in cinema o in televisione; correggere bozze ma non per una casa editrice; scrivere saggi ma non in ambito accademico; insegnare tecniche teatrali ma non in una scuola di formazione per attori professionisti; tenere corsi di scrittura ma non creativa; esercitare l’arte della consulenza filosofica che non ha niente a che fare con la psicologia anche se per qualche irritante ragione me lo chiedono in molti.

Cos’ una consulente filosofica? Una specie di psicologa?
No, non è una specie di psicologa; perché dovrebbe, del resto? Chi potrebbe desiderare di ricorrere a qualcosa che è «una specie» di qualcos’altro dal momento che qualcos’altro esiste già nella sua pienezza?

A voler tacere del fatto che dire psicologo non significa niente.
Psicologo è una parola ombrello, come ci hanno insegnato a dire gli inglesi che ci insegnano sempre un mucchio di cose purché esprimano concetti elementari. Una parola con la quale la maggior parte dei non specialisti si riferisce agli psicologi, agli psicoterapeuti e perfino agli psicoanalisti o agli psichiatri senza distinguere tra un laureato che può appena condurre un colloquio e somministrare un test diagnostico e un altro che si è fatto quattro anni di specializzazione post-lauream; senza distinguere tra un cognitivista e un ericksoniano, un gestaltico e un bioenergetico, un sistemico-relazionale e un Dio-sa-cosa; senza distinguere tra Freud, Jung, Adler e Lacan.

Faccio polemica. Ogni tanto è indispensabile. Scrive Eraclito che «Pòlemos è padre di tutte le cose, di tutti i re; e gli uni disvela come dèi e gli altri come uomini, gli uni fa schiavi gli altri liberi».

Il collega con cui ho fondato uno studio di consulenza filosofica è capace di farci un (hashtag)reel-philosophy su (hashtag)facebook per cercare di dire in un minuto quanto sia fondante ‘sto concetto di (hashtag)plemos: magari lo scovate in (hashtag)rete.

Dunque, vediamo: faccio polemica per libert.

Durante le sedute di consulenza dialogo insieme al cliente con spirito socratico, allo scopo di aiutarlo a chiarificare la propria filosofia di vita e consentirgli, così, di abitare con più consapevolezza e minore sofferenza se stesso e gli altri, la società e la famiglia, il lavoro e le inquietudini affettive, i lutti e le scelte di vita, le notizie di politica e le sconfitte della squadra del cuore.

In tutti i casi, è inevitabile ritrovarsi a parlare di etica, di spiritualità e di altre questioni metafisiche. Ritrovarsi a parlare di crisi di coscienza, di dubbi morali, di fede e di fideismo, di sensi di colpa, di valori ultraterreni, talora di vocazioni ascetiche. Ritrovarsi a passare al vaglio una certa idea di religione, la visione personale della giustizia, del peccato, dell’errore, delle credenze e interrogarsi sul senso, sulla possibilità o sulla liceità di versioni universali della giustizia, del peccato, dell’errore, delle credenze.

Eppure, nessuno mi domanda mai se il consulente filosofico è una specie di prete, di bonzo, di imam. Ragione per cui mi sembra evidente che la frequente domanda su un possibile parallelismo con gli psicologi consegua a un superficiale pregiudizio da rotocalchi, alla deriva psicologizzante di quei giornaletti che dispensano consigli su come superare l’ansia, la depressione, il tradimento, la mancata tenuta del mascara water proof durante un rave e il fuoco di Sant’Antonio risolvendo tutto con un bel trafiletto «I consigli dello psicologo».

Deprecabile; anzi no, maledetto: maledetto linguaggio comune.

Dunque, vediamo: faccio polemica per schiavit. Per risposta a una vulgata debordante che pretende di far coincidere l’irripetibile singolarità di ciascun individuo con lo spettro onnicomprensivo della psiche e non riesce a pensare a un discorso sull’umano che vada oltre un linguaggio, quello psicologico appunto, che, dopo tutto, vanta una tradizione di poco più d’un secolo. In ogni caso, no; andrà detto: il consulente filosofico non è nemmeno una specie di prete, di bonzo o di imam. Il consulente filosofico non è una specie di niente, è un consulente filosofico e basta. La sua deontologia professionale risponde all’episteme filosofico con i suoi oltre duemila anni di storia e la sua inestimabile letteratura e ogni professionista la incarna a proprio modo, senza dogmatismi e direttività, ma sempre con l’intento di accompagnare il cliente verso un benessere eudemonico.

Perché, a pensarci bene, la domanda che ci svolta l’esistenza consentendoci di conoscere meglio noi stessi, di farci conoscere e di conoscere gli altri è proprio quella sulla nostra filosofia di vita.
Fateci caso. Qualcuno vi ha mai chiesto: qual è la tua psicologia di vita?

Ma lasciamo stare. Si diceva: quando ho preso atto che stavo invecchiando, che ero single per scelta di un altro, che sapevo svolgere un mucchio di lavori diversi e li svolgevo, in effetti, da decenni senza che il mio conto in banca superasse mai le tre cifre ho non fatto un mucchio di cose. La mia filosofia di vita è un po’ così, ho pensato: preferisco l’osservazione e l’ascolto all’azione. È stato allora che il destino mi ha messo alla prova, disseminando la mia strada di donne non più giovani e single per scelta di altri che esprimevano il proprio assenso all’esistenza facendo.
E che tentavano di convincermi che sì è meglio di non.

– Seguo un corso di aromaterapia, mi ha salvato la vita. Durante il fine settimana andiamo nei boschi e impariamo a distinguere l’odore dei funghi tra loro. Perché non ti unisci a noi?
– Ho scoperto il canto armonico, mi ha salvato la vita. La sera ci ritroviamo in una basilica romanica con un’acustica strabiliante e ne usciamo ricaricati dal bagno sonoro. Perché non ti unisci a noi?
– Frequento un gruppo di cuochi vegani, mi ha salvato la vita. Ci scambiamo ricette e consigli di lettura sull’antispecismo. Ci incontriamo raramente, in realtà, ma grazie al gruppo WhatsApp siamo sempre in contatto e durante la cena ci teniamo compagnia scambiandoci messaggi per sostenerci a vicenda mentre mastichiamo il tofu. Perché non ti unisci a noi?
– Lo yoga della risata! Lo yoga della risata è la risposta. Mi ha salvato la vita. Ci sono gruppi di mattina e di pomeriggio e puoi scegliere liberamente quando andare. Non so come descriverlo, ti senti scema per un po’ e subito dopo leggerissima. Perché non ti unisci a noi?

I would prefer not to, ripetevo con l’umile costanza dello scrivano di Melville.

Una volta dall’erbivendolo ho incontrato un’invasata che aveva scambiato il buddismo per un rito scaramantico. Si affidava al Nam-myoho-renge-kyo con la stessa fiducia che aveva Michael Jackson nella chirurgia estetica. Lo recitava per non farsi venire le rughe e per non mettere a tara i dolci che divorava davanti alle serie tv, lo recitava perché il figlio divorziasse dalla moglie stronza e perché la figlia trovasse un fidanzato ricco, lo recitava perché all’ex marito il Viagra provocasse un’erezione perenne tale da farlo finire al pronto soccorso pieno di vergogna e pure perché cessasse il conflitto israelo-palestinese.
– Pratichiamo in gruppo davanti al Gohonzon. Perché non ti unisci a noi?
«I would prefer not to», ho risposto.

Il fare efficace per eccellenza delle donne non più giovani e single per scelta d’altri sembrava fosse prendere un cane.
Prendere un cane era azione coniugabile con il corso di aromaterapia, con il canto armonico, con il veganesimo, con lo yoga della risata e con il sacrilegio di quel buddismo d’accatto che avrebbe scosso dal nirvana perfino il Buddha. Prendere un cane era però anche azione a sé stante, risolutiva di molti mali.

– Prendi un cane. Fìdati. Ti salva la vita. Un cane è meglio di qualunque uomo. Sporca meno e non ti telefona per dirti che farà tardi al lavoro.

Un cane è meglio di qualunque uomo.
Santo cielo!
Francamente, c’è gente che ti fa venire voglia di andare lì ed esportargli la democrazia.

Però alla fine ho pensato che insomma sì, in qualche modo tutta questa gente aveva ragione: ci sono prese di coscienza epocali che meritano d’essere celebrate con un’azione che si definisca attraverso un sì. Allora un giorno sono salita sulla mia vecchissima auto, ho guidato fino al lavaggio automatico e ci ho investito ben 7 euro. Un piccolo passo verso l’integrazione.

Da allora, ogni due o tre anni lo faccio di nuovo. Così invece di spostarmi su una zolla di fango con le ruote ho semplicemente la macchina sporca come la maggior parte dell’umanità.

Francesca Guercio in libreria con Distopia pop, Polidoro editore

Illustrazione di Emma Barducci

equivoci

Ruby Hamad

Secondo Disney e l’immaginazione popolare occidentale, Pocahontas era una giovane fanciulla dallo spirito libero, profondamente attratta dal bell’esploratore John Smith, cui salvò la vita gettandosi al suo fianco proprio mentre il padre, il capo algonchino, stava per giustiziare l’inglese con un’ascia.

Come mediatrice tra il suo popolo e l’uomo bianco, la Pocahontas Disney è una figura con una sua dignità, ma quasi mitica. È la fantasia della selvaggia per eccellenza, così vicina alla natura da poter saltare indenne attraverso le cascate, parlare con gli animali e dipingere con i colori del vento (qualunque cosa questo significhi). Comprende l’inevitabilità della «civilizzazione» bianca e prega suo padre di trattare per la pace mentre si innamora di Smith, che preferisce rispetto al guerriero poco attraente scelto per lei da suo padre, Powhatan.

Nel secondo film, dal sottotitolo Viaggio nel nuovo mondo, Pocahontas si offre volontaria per andare in Inghilterra a rappresentare il suo popolo davanti ai reali e si innamora di un altro bianco: John Rolfe.

Dopo che il negoziato con la corona è andato a buon fine (ovviamente), salpano verso il tramonto per tornare in Virginia, presumibilmente per vivere felici e contenti.

Ma non andata proprio cos.

La vera Pocahontas aveva solo dieci anni quando Smith, un uomo di mezza età, sbarcò a Jamestown, in Virginia. I due non ebbero mai una relazione ed è altamente improbabile che lei gli abbia mai salvato la vita. Infatti l’unica testimonianza di quell’incidente si trova negli scritti molto romanzati di Smith, in cui dice di essere desiderato da molte fanciulle native e afferma di essere stato salvato nello stesso modo più volte.

Il vero nome della nativa era Matoaka, che significa «fiore tra due ruscelli», probabilmente un riferimento alle terre del suo popolo, e Pocahontas («la gioiosa») era il suo soprannome d’infanzia. Andò in Inghilterra, sposò Rolfe ed ebbe un figlio da lui, ma solo dopo essere stata rapita e tenuta prigioniera per un anno. Convertendosi al cristianesimo, prese il nome biblico Rebecca e fu accolta dalla società bianca come una nativa «civilizzata con successo».

Matoaka non vide mai più la sua famiglia. Anche se lei e Rolfe salparono davvero da Londra per la Virginia, si ammalò e morì prima ancora che la nave avesse lasciato il Tamigi. Aveva ventun anni.

Il suo corpo non fu riportato in patria, ma sepolto in Inghilterra, e la sua tomba andò persa per sempre in seguito a un incendio nel cimitero.

Il mito della principessa Pocahontas rappresenta un sex symbol passivo, la «buona indiana» che unisce l’uomo bianco al nativo, il civilizzato al selvaggio, il futuro al passato. Ma – e questo è un grande «ma» – attraverso la sua attrazione per gli uomini bianchi conferma anche la superiorità della società bianca sulla sua. Un tacito permesso, per i bianchi, di conquistare, assimilare e distruggere la cultura nativa. Anche il suo status di «principessa» è una montatura (questo ruolo non esiste nelle culture native) che impregna la leggenda di Pocahontas di gravità e peso, rendendo il suo entusiasmo per la civiltà bianca ancora più significativo. Come mediatrice giovane, sensuale, virginale e animalesca, Pocahontas rappresenta la volontà del nativo femminilizzato e inferiore di essere dominato, penetrato (letteralmente) e civilizzato dalla società bianca e maschile superiore, come se accettasse la sconfitta e la scomparsa del suo stesso popolo.

Questa eredità imposta di sottomissione passiva continua a perseguitare le donne native di oggi. Angel è una donna Cherokee e Lakota sulla quarantina e ha antenati irlandesi da parte di padre. L’ho contattata su internet per chiederle quale fosse, secondo lei, il principale stereotipo che ostacola le donne native. Senza esitare, ha risposto che era il mito della principessa Pocahontas che, afferma, riduce le donne native a sex symbol o a creature mistiche che sanno parlare con gli animali, o addirittura considera direttamente loro stesse come animali. «Voglio dire: è un cartone animato, noi siamo persone reali. Non parliamo con procioni e alberi, cazzo!», ha scherzato Angel, esasperata.

Questo testo un estratto del saggio Lacrime bianche / ferite scure di Ruby Hamad (Edizioni Tlon, traduzione di Dorotea Theodoli)

Quali no hai detto, nella vita?