Charles M. Schulz: i cento anni del papà dei Peanuts

È un tempo buio e tempestoso quello che stiamo vivendo. Senza neanche più, a difenderci, un asso dell’aviazione della Prima guerra mondiale come Snoopy. Lo spericolato bracchetto che, a bordo della sua cuccia trasformata in biplano da caccia Sopwith Camel, indossati occhialoni, casco da pilota e sciarpa svolazzante, intrecciava epici duelli aerei con il triplano Fokker del malvagio barone (rosso) Manfred von Richthofen, l’unico che incarnasse negli anni sessanta della contestazione, della guerra in Vietnam, il “nemico” sul quale tutta l’America concordava. 

Certo, capitava a volte che, duellando sui cieli di Francia, il pericoloso quanto invisibile avversario – costantemente maledetto a gran voce: “Un giorno ti avrò Barone Rosso” – gli sforacchiasse la cuccia, ops scusate: la carlinga, e Snoopy fosse costretto ad abbandonare il suo biplano atterrando, vergognosamente, sulla propria scodella, o talvolta si paracadutasse dietro le linee nemiche dove, immancabilmente, avrebbe incontrato affascinanti ragazze francesi da corteggiare, offrendo loro orzate o ciambelle.

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Charles M. Schulz con Virginia e Marion Knott durante i lavori di costruzione di “Camp Snoopy” (ca. 1983). Photo courtesy Orange County Archives.

 

Il fatto è che, dal 12 febbraio 2000, siamo rimasti orfani del papà di Snoopy, il cantastorie Charles M. Schulz (del quale il 26 novembre 2022 ricorre il centesimo anniversario dalla nascita), “rassicurante anomalia della modestia nell’epoca della vanità e del marketing”, ebbe a descriverlo Vittorio Zucconi; “geniale creatore delle avventure più miti, più dolci, più limpide dell’ultimo mezzo secolo”, scrisse di lui Fernanda Pivano.

Già un anno prima di andarsene Schulz era stato costretto, a seguito di un ictus, a ritirarsi e smettere di disegnare i suoi, e nostri, amati Peanuts, personaggi adulti camuffati da bambini che, alla fine, per citare di nuovo Zucconi, si erano impadroniti del loro creatore. «Cari amici», scrisse Schulz «ho avuto la fortuna di disegnare Charlie Brown e i suoi amici per quasi cinquant’anni. È stata la realizzazione del sogno che avevo fin da bambino. Purtroppo, però, ora non sono più in grado di mantenere il ritmo di lavoro richiesto da una striscia quotidiana. La mia famiglia non desidera che i Peanuts siano disegnati da qualcun altro, quindi annuncio il mio ritiro dall’attività. Sono grato per la lealtà dei miei collaboratori e per la meravigliosa amicizia e l’affetto espressi dai lettori della mia “striscia” in tutti questi anni. Charlie Brown, Snoopy, Linus, Lucy… non potrò mai dimenticarli…». 

E accanto all’addio, l’immancabile fantasioso Snoopy, sul tetto della cuccia davanti alla sua fedele macchina per scrivere, rigorosamente manuale, quella con cui aveva raccontato, per anni, di notti buie e tempestose.

La felicità “non è” un cucciolo caldo

Charles M. Schulz non credeva, proprio per niente, che la “felicità fosse un cucciolo caldo”. Anzi, rincarava, la felicità non è neanche divertente. E prendeva ad esempio il tormentone del sofferente Charlie Brown (personaggio “sartrianamene esistenzialista”, lo descrive il filosofo Nathan Radke) che, nei 50 anni di vita delle strisce, non sarebbe mai stato capace di calciare il pallone che l’arcigna, bisbetica e alquanto crudele Lucy van Pelt, sorella maggiore di Linus (apertamente ispirata dalla prima moglie Joyce Halverson, da cui Schulz ebbe cinque figli) finiva sempre per togliergli da sotto i piedi al momento fatale del tiro.

Certo non era un segreto, almeno fra gli addetti ai lavori, che al di là della maschera gioiosa offerta al pubblico delle sue strisce, il disegnatore soffrisse di un diffuso disagio esistenziale. A togliere ogni dubbio e rivelarlo al grande pubblico fu l’uscita, negli Stati Uniti, nel 2007, di un monumentale, quanto fondamentale, tomo: Schulz e i Peanuts – 680 pagine (il dattiloscritto originale ne contava ben 1800 prima dell’editing finale) fitto di date, interviste, documenti, foto, strisce – scritto da un autorevole biografo, David Michaelis, che, ricevuta la benedizione della famiglia, aveva speso sette anni (finanziati da HarperCollins, editore lungimirante come pochi) in ricerche, interviste a ex commilitoni, parenti, amici, colleghi, ex “fiamme” del disegnatore. Il volume è stato poi pubblicato in Italia da Tunué nel 2013, per la traduzione di Alessandro Bottero e l’aggiunta di una nota illuminante del sociologo Marco Pellitteri. 

In pratica si tratta di una rivisitazione, in chiave biografica, del “grande romanzo americano”: non solo il ritratto vivido di un uomo che soffriva di un’immotivata tristezza, che immaginava di non essere mai stato amato e che mai lo sarebbe stato, ma anche, annota Pellitteri, il ritratto di decenni di storia americana nei quali Schulz si era trovato a vivere, incarnandone molte caratteristiche.

Lo Schulz che tutti, indistintamente, conoscevano con il nomignolo di Sparky, “Scintillina” (dal nome di un ronzino da corsa, Spark Plug, personaggio di un fumetto popolare negli anni venti), era uno che “non beve, non fuma, non dice parolacce”, come lo definirà uno storico del fumetto, che aveva un carattere lamentoso, in perenne ricerca di attenzioni perché si sentiva sottovalutato e non considerato. E questa non è una “scoperta” di Michaelis, ma anche ciò che aveva confessato lo stesso Schulz alla giornalista Rheta Grimsley Johnson, autrice della biografia Good Grief: The Story of Charles M. Schulz (1989), in cui affioravano «le sue insoddisfazioni e gli imbarazzi dell’infanzia e adolescenza, le sue insicurezze, la convinzione di avere talento e la delusione ogni volta che non gli veniva riconosciuto». Insomma, Charlie Brown c’est moi.

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“Peanuts, il titolo peggiore mai pensato per un fumetto”

Chi l’avrebbe mai detto: Schulz detestava di tutto cuore il nome Peanuts (in inglese un sostantivo dai molti significati) imposto alle sue strisce dall’agente americano, la United Feature Syndicate, una delle maggiori e più potenti società di distribuzione di fumetti negli Stati Uniti e nel mondo. Il nome datogli originariamente da Schulz, Li’l Folks, “ragazzini” (era, ammettiamolo, decisamente Kawaii, stucchevolmente carino, un titolo che, fra l’altro, avrebbe inchiodato i personaggi a un pubblico di soli bambini che non avrebbero certamente capito e apprezzato il sottotesto) cozzava con quello di un fumetto uscito negli anni trenta, Little Folks, che, seppure ormai dimenticato, era protetto come marchio registrato, e alla UFS dovevano pertanto trovare un nome alternativo. Il nuovo titolo fu scelto dal direttore commerciale Bill Anderson che, anni più tardi, confesserà al perennemente offeso autore di averlo ideato addirittura senza aver visto le strisce, cosa che ancor più affliggerà Schulz: «Etichettare il lavoro di una vita con un nome come Peanuts fu un insulto intollerabile».

Questo del nome fu un vulnus che, negli anni a venire, avrebbe accompagnato Sparky che se ne sarebbe lagnato in ogni possibile circostanza e non avrebbe perso l’occasione di inoltrare all’agenzia le cartoline di lettori che gli scrivevano per chiedere chi diavolo fosse questo tale Peanuts che nelle strisce non appariva mai, né mai veniva citato dagli altri personaggi. 

«Era il titolo peggiore che fosse mai stato pensato per una striscia di fumetti», ebbe a dire l’ipersensibile Schulz nel corso di una lunghissima intervista (a firma di Gary Groth e Rick Marschall, pubblicata in Francia dai Cahiers de la Bande Dessinée, vol. 81, giugno 1988). «È del tutto ridicolo, non ha senso, fa semplicemente confusione, non ha dignità, e credo che invece il mio umorismo abbia una sua dignità. Sono due cose che hanno pesato su di me per tutta la mia carriera». «E non sono bastati 37 anni per addolcire questa pena?», domandano i due intervistatori. E lui, irritato: «Eh no, non mi è ancora passata». 

Per non parlare del fatto che, all’inizio, oltre a imporre il titolo, i dirigenti della UFS (“magnati della costa dell’est privi di sensibilità”, li definiva Schulz) non credevano neanche fino in fondo che quei bambini dalla testa rotonda avrebbero avuto un gran potenziale di mercato. Avevano infatti deciso di suggerire ai propri clienti di pubblicare le strisce in un formato inferiore a quello standard, divise in quattro quadrati di uguali dimensioni che avrebbero potuto essere disposti in orizzontale, verticale o due sopra e due sotto, come trucco salva spazio (praticamente dei tappabuchi). Le avrebbero potute usare per “risolvere problemi d’impaginato”, secondo la necessità del momento, in ogni possibile pagina del quotidiano, prima, editoriali, cronaca, pubblicità o, se proprio volevano, nella pagina dei fumetti. 

Una “Scintillina” enigmatica e complessa

Leggere le strisce dei Peanuts è «conoscere con esattezza chi sono», amava dire Schulz e mai dichiarazione fu più che psicanaliticamente veritiera. Non solo, Sparky rifuggiva da dotte interpretazioni del suo lavoro. «Non scrivo per gli intellettuali», ribadiva seccamente. «Respingo l’etichetta d’intellettuale e non credo di essere neanche particolarmente intelligente, ma spiritoso sì, credo di esserlo». A volte aggiungeva: «Non sono neanche un filosofo, non sono poi così tanto istruito». 

Eppure chi lo frequentava da sempre asseriva che “Scintillina” era «difficile da conoscere, arduo da capire: non voleva diventare troppo intimo con nessuno, gli piaceva pensare di sé di essere un uomo semplice, ma semplice non lo era: era enigmatico e complesso». Nondimeno lui continuava a ripetere a tutti di essere una persona qualsiasi, «un normalissimo tizio del Midwest», figlio unico di un barbiere di St. Paul e di una casalinga (proprio come saranno i genitori di Charlie Brown).

 E nonostante l’immenso successo avuto, nonostante fosse il disegnatore di fumetti più pagato al mondo, nonostante che Schulz, come Charles Foster Kane – il personaggio di Orson Welles in Quarto potere, film che Sparky avrebbe visto più di quaranta volte e avrebbe citato spesso nelle sue strisce – avesse raggiunto un successo superiore a qualsiasi suo sogno d’infanzia, se qualcuno glielo faceva notare rispondeva: «Ho avuto un enorme successo? Lo pensate davvero?». 

Per avere un’idea del suo patrimonio basti pensare che, secondo Forbes, negli anni ottanta, Schulz guadagnava addirittura più di Madonna, Michael Jackson o Steven Spielberg. Nel momento di massima popolarità i Peanuts erano pubblicati in 2600 testate in 75 paesi del mondo, in 21 lingue diverse, con un pubblico di 355 milioni di lettori; un impero con proventi relativi a diritti d’uso – musical, cartoni animati, e merchandising d’ogni tipo (soprattutto uno tsunami di Snoopy in peluche che svettava ai primi posti nella classifica delle icone americane, accanto al Monte Rushmore, al baseball, al Big Mac) – che portavano il suo giro di affari a una cifra con un numero impensabile di zeri. Michaelis ricorda che nel 1989 i ricavi annuali dei prodotti derivati dai Peanuts, su scala mondiale, raggiunsero il miliardo di dollari. 

Già nel maggio del 1967 l’allora governatore della California, Ronald Reagan, proclamando il “Charles M. Schulz Day”, consegnò a Sparky un attestato in cui, tra l’altro, c’era scritto: «Felicità è avere Charles Schulz residente in California: porta un sacco di soldi».

La ragazzina dai capelli rossi

Charles Schulz aveva l’innamoramento facile. Nel suo curriculum, si contemplano innumerevoli Annabelle, Jane, Lyala, Naomi, Virginia, Judy, ma sarà soprattutto la storia mancata con la “ragazzina dai capelli rossi”, Donna Johnson, ex impiegata della contabilità della scuola per corrispondenza Art Instruction (incontrata un attimo prima del suo successo stellare), a rimanergli imperituramente nel cuore e nelle strisce. «Fondamentalmente si disegnano ricordi», ebbe a dire Sparky, «per cui si resta seduti a pensare al passato e riportare alla luce brutti ricordi».

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Schulz con Donna Johnson, la “ragazzina dai capelli rossi”, verso la fine degli anni ’40.

 

La “ragazzina dai capelli rossi”, che non apparirà mai fisicamente fra i personaggi della Banda Peanuts (un po’ come l’invisibile moglie del tenente Colombo o l’altrettanto invisibile signor Godot), è la spina nel cuore di Charlie Brown che spasima per una che non se lo fila. Proprio come Jay Gatsby aveva spasimato per la sua Daisy Buchanan. 

«Lo sai perché la ragazzina dai capelli rossi non mi nota?», si cruccia un lamentoso Charlie Brown. «Perché non sono nessuno. Quando guarda qui non c’è nessuno da vedere. Come fa a vedere qualcuno che è nessuno?». 

L’identità della ragazzina rimase celata, ricorda Michaelis, fino al 1990, quando la UFS decise di festeggiare il quarantesimo anniversario della striscia, svelando che colei che aveva inferto la “prima delusione in amore” a Charles Schulz era questa tale Donna Johnson, ormai sposata con un pompiere, nonna di sessantun anni con sette nipotini al seguito. Più che altro, per molti, Donna passerà alla storia del fumetto con l’etichetta di “ragazzina dai capelli rossi che si è persa 30 milioni di dollari l’anno scaricando il creatore dei Peanuts”. 

Povero piccolo Sparky

Schulz dovrà arrivare a settant’anni – diventare “l’anziano rispettabile dei fumetti” – per notare che qualcosa in lui era cambiato, e non solo la montatura gialla degli occhiali firmati Dior. Era diventato meno riservato e più curioso. «È quasi un capellone», noterà Lietta Tornabuoni «con le ciocche biancargento che gli scendono sul collo. Molto elegante, molto più che in passato». 

Anche il suo modo di rapportarsi alle donne era mutato. «Tanto per cominciare», scrive Michaelis «il suo desiderio di tutta una vita (“mi piacerebbe essere uno che attrae le donne all’istante”) era finalmente divenuto realtà. Le donne lo adoravano, lo trovavano attraente, amavano stare con lui […] E lui che era sempre stato un Romantico con la R maiuscola, ora non doveva più sforzarsi allo spasimo per fare buona impressione». 

Era ciò che era accaduto con la venticinquenne Tracey Claudius, “nubile, sveglia, carina, capelli castano chiaro, snella, atletica, e occhi dall’insolito color verde dorato”, colei che avrebbe accelerato la fine del matrimonio di Schulz con Joyce durato 8143 strisce dei Peanuts. Era ciò che accadrà nell’intermezzo matrimoniale quando, sulla pista di pattinaggio, incontrerà Jeannie (Jean Clyde), veterana di gare aviatorie transcontinentali, colei che diverrà la sua seconda moglie. Colei che, a detta delle amiche era una santa, perché sopportava le continue scappatelle extraconiugali del marito. Diceva, rassegnata: «Sparky non ne aveva solo una alla volta. Era uno che credeva nelle “pari opportunità” per tutte». 

Il fatto era che, a settant’anni, Schulz era diventato più bello, più sicuro di sé (anche se continuava a dire: «Mi piacerebbe una ragazza che mi chiamasse “Povero piccolo”»), ed estremamente fotogenico. Persino Federico Fellini, che aveva incontrato Schulz nel 1992, scrisse a Jeannie: «Quanto mi è piaciuto il suo volto. È il volto di un aristocratico. Ispira fiducia, il volto dell’amico ideale». 

Cristianesimo, americanesimo e teologia pop

 

Charles Schulz aveva avuto un’educazione luterana, ma, come ricordava lui stesso: «la domenica a mio padre piaceva andare a pesca, e così non andavamo mai in chiesa». Fin quando scoppia la guerra e Sparky parte per il fronte europeo, assegnato alla compagnia Bravo dell’Ottavo Battaglione di Fanteria Corazzata. 

Tornato a casa con i gradi di sergente, sano e salvo, comincia a frequentare la “Chiesa di Dio”, una delle tante chiese protestanti americane, «semplicemente per un sentimento di gratitudine: per essere sopravvissuto alla guerra. Sentivo che Dio mi proteggeva, mi aiutava e mi dava la forza di sopravvivere. Ho sempre sentito che in quei tre anni di guerra qualcosa mi ha aiutato a vivere perché non mi hanno mai sparato né ferito». 

Nell’estate del 1948 si fa addirittura battezzare nelle acque del Mississippi che attraversano il lago Phalen, nei quartieri a nord di St. Paul. Il battesimo, assicura Michaelis, gli conferì, come mai prima di allora, un nuovo equilibrio e senso di identità. Nella sua chiesa fungeva da tesoriere, da insegnante di catechismo domenicale, faceva parte del consiglio per l’educazione cristiana e di quello dei diaconi e fiduciari, predicava nelle funzioni domenicali, oltre a versare un decimo dei proventi dei Peanuts.

Questa sua vena evangelica finirà per riversarsi anche nel mondo dei Peanuts con messaggi intrisi di misticismo, citazioni bibliche e metafore magari non sempre comprese dai lettori, ma sempre accolte con un sorriso, visto che provenivano dal pulpito dei Peanuts. «I fumetti devono avere un messaggio», diceva Sparky. «L’umorismo che non dice niente è un umorismo senza valore. Io predico nei miei fumetti e ho il diritto di dire ciò che voglio come un predicatore fa dal pulpito». Sottintendendo: così è se vi pare. 

Secondo uno studio di Stephen Lind, docente di economia a USC (Università della California del Sud), più di 560 strisce, su circa 17800, contengono riferimenti teologici, spirituali o religiosi. Ad esempio, in una vignetta Charlie Brown evoca Salomone esclamando: “Tutto è vanità” (Ecclesiaste 1:2). Oppure, quando scopre che Snoopy vorrebbe rubare una merenda dal frigorifero cita il settimo Comandamento: Thou shall not steal, “Non rubare”, al che il bracchetto gli risponde indicando sulla Bibbia il versetto: “Thou shall not muzzle the ox while he treads out the grain”, Non metterai la museruola al bue che trebbia il grano (Deuteronomio 25:4).

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Ad approfondire questo aspetto evangelico del lavoro di Schulz sarà soprattutto un pastore protestante, tale Robert Short in un best-seller The Gospel According to Peanuts – uscito negli Stati Uniti nel 1964, e tradotto trentasei anni più tardi in Italia dall’editore Gribaudi col titolo Il Vangelo secondo Charlie Brown.

È però, praticamente nello stesso periodo dell’uscita di quel libro, a metà degli anni sessanta, che l’attivismo religioso di Schulz del decennio precedente comincia a perdere colpi. E alla salvezza indicata dalla fede ecco sostituirsi la soluzione laica del “soccorso psichiatrico” (a pagamento: 5 centesimi) di Lucy che l’autorevole rivista scientifica The Lancet eleggerà a “più famosa psichiatra del ventesimo secolo”.

Sparky smette, dunque, di andare in chiesa. Dice: «Non so dove andare. Non credo che Dio voglia essere adorato. Credo che l’unica vera adorazione di Dio sia volersi bene a vicenda». E poi: «A volte trovo molto difficile sapere come pregare». E ancora: «Molti la domenica vanno a messa con lo stesso spirito con cui vanno al cinema. Si siedono e si godono lo spettacolo». E più avanti: «Sono abbastanza sicuro che Gesù non avesse avuto intenzione di fondare una nuova Chiesa. Sono sicuro che l’uomo non si salva attraverso i sacramenti». E infine: «Le mie convinzioni teologiche sono cambiate considerevolmente, ora tendo ad evitare chiunque dice di possedere la verità. Una chiesa organizzata mi fa paura, e una chiesa che si identifica con l’America mi fa molta paura». Sottinteso: la tendenza a ravvisare il Cristianesimo con l’Americanesimo.

È così che, spesso, le sue strisce finiscono per avere una doppia lettura: da una parte si intravedono parole di evangelizzazione, dall’altra è chiara una sottile, bonaria canzonatura dell’evangelizzazione stessa. Esempio: Linus, in veste sottintesa di seguace del profeta Geremia, avverte Charlie Brown: «Da grande penso che farò il profeta. Dirò verità profonde, ma nessuno mi ascolterà». «Se nessuno ti ascolterà, perché parlare?» «Noi profeti siamo molto ostinati». 

Su Civiltà Cattolica, la rivista dei gesuiti, Padre Giancarlo Pani, docente di storia del cristianesimo alla Sapienza, scriverà: «Quella di Schulz è un’evangelizzazione non priva di ironia e di umoristica caricatura propria delle varie tendenze degli stessi cristiani», a cui non manca neanche un’eresia, quella del Grande Cocomero (The Great Pumpkin, apparso la prima volta in una striscia del 26 ottobre 1959) che elargisce doni ai bambini credenti e buoni d’animo (sostituto delle speranze e delle delusioni incarnate dalla figura di Babbo Natale) che Linus, al posto del rituale “dolcetto o scherzetto”, attende invano, in un campo di zucche, ogni notte di Halloween. Una lettrice scrisse a Schulz che il Grande Cocomero era sacrilego. Lui le rispose che il vero sacrilego era Babbo Natale: ecco perché lo raffigurava come un Grande Cocomero.

“Cinque centesimi, prego”

Mark Doolittle, ventisei anni, dottorando in psicologia clinica all’Università di Berkeley, terminato il torneo di tennis che aveva vinto nei campi di Howarth Park, nella contea di Santa Rosa, va alla fontanella per bere. Lì accanto c’è un signore di cinquantadue anni, capelli grigi, asciutto, seduto a un vicino tavolo da picnic che gli chiede com’era andato il match. Per un po’ i due si scambiano opinioni sul tennis, poi, per caso, il discorso cade su cosa stesse studiando il giovanotto, e saputo che si trattava di psicologia, l’uomo, a cui brillano gli occhi, gli chiede cosa avesse studiato delle fobie. Strana domanda, pensò Doolittle che racconterà di questo strano incontro al biografo David Michaelis perché quel signore «anziano e ben vestito che gli stava dicendo di avere paura di viaggiare, di allontanarsi da casa, di ritrovarsi nel mondo e in mezzo alla gente, cosa che gli rendeva difficile lavorare» era Charles Schulz. 

Sparky si presentò come il disegnatore dei Peanuts e – come avrebbe fatto Charlie Brown al banchetto dei consigli psichiatrici di Lucy – spiegò che, vista la sua fama, era tenuto a viaggiare, socializzare, incontrare sconosciuti e, quindi, lasciare la sicurezza della casa e dello studio, e la cosa lo destabilizzava. Parlò a Doolittle del suo divorzio e della nuova moglie Jeannie, iperattiva, che «non mi lascia stare a casa». 

Il futuro dottor Doolittle gli spiegò allora cosa diceva la scienza medica a proposito delle sue fobie, e di come poteva porvi rimedio. Poi, aggiunse: «se lei è così spaventato, mi spiega perché ha divorziato e poi si è risposato? E come ha fatto ad arrivare fin qui oggi?».

Alla domanda volutamente provocatoria Schulz scoppiò in una risata: il suo senso del comico e dell’assurdo aveva avuto la meglio. Ricorderà Doolittle: «Sulla sua faccia si poteva leggere il sollievo, anche se non abbastanza da cancellare la sua paura, ma suggeriva che c’era ancora molto da fare, da vivere». I due non ebbero più occasione di rincontrarsi e parlarsi. In fondo quel Doolittle, commenta Michaelis, era stato come un donatore sconosciuto da cui Schulz aveva ricevuto il sangue per una trasfusione d’emergenza. 

Almeno non era accaduto come quando Charlie Brown chiese a Lucy – nella prima striscia in cui lei indossa i panni di novella Sigmund Freud – cosa può fare per il suo profondo senso di depressione, e lei risponde: «Fattelo passare. Cinque centesimi, prego».

I libri con le figure

Charles Schulz non sarà stato, come affermava lui, un intellettuale e un filosofo, ma, per dirla con Umberto Eco, è stato certamente – anche se, magari, involontariamente, se proprio vogliamo dare credito al suo understatement – “un poeta capace di portare tenerezza nelle vite dei lettori, di far scaturire rivelazioni da eventi quotidiani, di improvvisare avventure ininterrotte sulla base di variazioni infinitesimali”.

I Peanuts sbarcarono in Italia, raccolti in un primo volume dal titolo programmatico Arriva Charlie Brown!, nel 1963, anno pieno di ribollenti avvenimenti globali: dall’uscita del primo LP dei Beatles (Please Please Me), all’enciclica Pacem in Terris di Papa Giovanni XXIII; da Martin Luther King e il suo famoso discorso I have a dream, all’assassinio del presidente John F. Kennedy. Più modestamente, da noi, è l’anno in cui tenne banco il termine “congiuntura”, quello in cui, per parafrasare Sergio Endrigo, la festa del miracolo economico appena cominciata era già finita.

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Ciononostante, due anni più tardi, nell’aprile del 1965, a Milano, si registra un fatto che probabilmente non troverà riscontro nei tomi accademici di storia patria, ma che, per certo, cambierà le vite cultural-fumettistiche, e non solo, di molti di noi, un’onda lunga arrivata fino ad oggi, e che non mostra segni di stanchezza: parliamo dell’uscita del primo numero del mensile Linus, dall’iconica copertina verde che rappresenta Linus, appunto, poco più che neonato, con coperta all’orecchio e pollice in bocca.

Le radici della rivista risalgono a un altro aprile, quello del 1962, quando tre signore della buona borghesia milanese – Vanna Vettori, Anna Maria Gregorietti Gandini e Laura Lepetit, affiancate da un nutrito gruppo di soci, collaboratori e suggeritori – rileveranno una libreria in pieno centro, affacciata sul Teatro alla Scala e su Palazzo Marino, che ben presto diverrà, soprattutto per un pubblico trasversale interessato ai “libri con le figure”, un punto di riferimento culturale tale da richiamare, tanto per fare un parallelo, il fascino di locali come La Hune, l’iconica libreria-galleria di Saint Germain-des-Près frequentata dall’élite degli intellos parigini.

Attorno alla Milano Libri si crea, da subito, un “circolo di amici di letture e chiacchiere” interessato a temi di cultura pop(olare): fumetti, gialli, fantascienza, spionaggio, e, più in generale, il mondo colorato e vario dei libri illustrati, la fotografia, il design. Di quel gruppo facevano parte i fratelli Cavallone, con Franco, affermato notaio e Bruno, docente di diritto processuale; Ranieri Carano, procuratore legale; Vittorio Spinazzola, critico letterario; Oreste del Buono, poliedrico scrittore, traduttore, critico e tant’altro; Umberto Eco, all’epoca condirettore editoriale della Bompiani; il grafico Salvatore Gregorietti; Francesco “Ciccio” Mottola, avvocato, che, grazie ai suoi viaggi a Londra e agli “avvistamenti” fatti nelle librerie che importavano novità di editoria illustrata dagli Stati Uniti, poteva vantare il titolo di “scopritore” dei Peanuts

«Charlie Brown e compagni diventano subito una presenza costante delle lunghe discussioni che prendono vita in libreria», ricorda Paolo Interdonato, autore di un imperdibile Linus, storia di una rivoluzione nata per gioco (Rizzoli-Lizard, 2015) «al punto che Milano Libri inizia a importare, in esclusiva, quei volumetti. È così che, nel 1963, la libreria si trasforma in un marchio editoriale e pubblica il suo primo libro», Arriva Charlie Brown!, appunto, nella traduzione di Bruno Cavallone, per i cui diritti furono pagati 400 dollari.

Quell’oggetto cartaceo non identificato 

Quando Linus, “rivista dei fumetti e dell’illustrazione”, come recita il sottotitolo, arriva in edicola, ha un aspetto di un normale prodotto editoriale, eppure è allo stesso tempo «un oggetto cartaceo non identificato, capace di fare la rivoluzione» (Interdonato). Accanto all’editoriale che Franco Cavallone scrive, ma non firma, si trova una chiacchierata – su una cosa «molto importante e seria, anche se apparentemente frivola: i fumetti di Charlie Brown» (Eco) – tra tre pesi massimi della cultura nostrana: Elio Vittorini, Oreste del Buono e Umberto Eco, appunto. Una conversazione che verrà citata, riprodotta e riproposta nei tempi a venire, a riprova che la cultura “bassa” non era per niente bassa. Anzi. 

Per la cronaca, nel primo numero di Linus, accanto a Charles Schulz appaiono Krazy Kat, Li’l Abner, e un occasionale Popeye (Braccio di ferro). Nei numeri successivi sarà un turbinio di classici come Dick Tracy, Pogo, B.C., Wizard of Id, Jeff Hawke. Non mancheranno neanche sguardi al passato con tavole e illustrazioni di Antonio Rubino (dal Corriere dei Piccoli), di Benito Jacovitti (Pippo nel Texas), di Harold Gray (Little Orphan Annie), di Walt Disney (Topolino contro il gatto Nip), di Edgar Wallace (L’ispettore Wade). Col tempo troverà sempre più spazio anche la satira con Robert Crumb, Garry Trudeau, Wolinski, Copi.

Il primo degli italiani ad attraversare le pagine di Linus sarà, già dal secondo numero, Guido Crepax che, con la storia La curva di Lesmo, rivoluzionerà il modo di disegnare e guardare i fumetti e ci farà conoscere e innamorare della sua Valentina Rosselli. Poi arriveranno Hugo Pratt con Corto Maltese, Altan con Cipputi, Enzo Lunari con Ghirighiz, Pericoli e Pirella con il dottor Rigolo. L’elenco sarebbe noiosamente lungo da fare e soprattutto da leggere.

Per certo, Schulz era rimasto favorevolmente colpito da come Linus trattava i suoi Peanuts e soprattutto ammirava le traduzioni di Franco, il notaio: «Must be a genius», ebbe a dire Sparky a Giovanni Gandini che, un giorno, era andato a trovarlo a casa, in California, dopo averlo svegliato di sabato mattina presto, e averlo fatto parlare di fumetti, pur con qualche difficoltà a capire cosa stesse dicendo. A margine della visita annotò: «Sparky parla in fretta… Non è che gli americani si rendono spesso conto che uno non nasce sempre di lingua inglese». Su una cosa concordarono e si capirono benissimo: che i Peanuts erano un faro nella notte buia e tempestosa dei rispettivi animi. Vorremmo poter rassicurare Schulz che, per tutti noi, lo sono ancora oggi e che, sì, potrebbe essere orgoglioso del suo lavoro di poeta. 

«Mi sono accadute cose incredibili nella vita e così morirò contento», ebbe a dire Sparky in una delle ultime interviste, aggiungendo, poi, dopo una pausa, ciò che avrebbe potuto benissimo aggiungere il suo alter ego Charlie Brown nell’ultimo quadrato di una striscia, abbassando sconsolato la testa: «Per quanto uno possa morire contento».

Charles M. Schulz: i cento anni del papà dei Peanuts