Sterilità feconda: un cammino di grazia





Nella decisione di adottare, la sterilità diventa feconda e consente di riscoprire la grazia della sterilità, oltre la prova: l’adozione è il possibile dono, al di là della sterilità[1] 

Generare non è solo procreare. È un atto fondamentalmente legato all’esperienza umana delle relazioni di accoglienza e quindi, più che una semplice azione riproduttrice, la generatività di una coppia diviene possibile e plausibile anche per tramite dell’accoglienza adottiva.

L’adozione è dunque una delle forme della generatività, capace di stabilire autentiche relazioni filiali e genitoriali. Benché l’adozione non sia riservata alle coppie sterili, è tuttavia utile osservare come particolarmente rilevante quanto l’esperienza adottiva sia preceduta da quella della sterilità di coppia (quasi nel 95% dei casi), ricavandone due interrogativi: per quale ragione la fecondità coniugale non viene smentita dalla sterilità o dalla ipofertilità? Per quale ragione le coppie sterili si affacciano alla generazione adottiva?[2]

Si tratta dunque di evidenziare e riconoscere la generatività come non riconducibile e identificabile con la sola procreazione biologica, ma assolutamente e pertinentemente riconoscibile anche in altri processi identificativi e relazionali quali quelli che contraddistinguono l’adozione, capaci peraltro di essere del tutto estranei ai presunti vincoli irreversibili diagnosticati con la sterilità.

Spesso l’opzione adottiva si dischiude per le coppie sterili per via residuale ovvero solo dopo aver esperito senza esito positivo altre strade offerte dalla procreazione medicalmente assistita, ma la sua potenziale fecondità è iscritta nella storia della relazione della coppia stessa: la fecondità della propria sterilità è infatti sempre rinvenibile ed accessibile anche se non automaticamente o meccanicamente ovvero senza aver deciso di impegnare liberamente e sino in fondo la propria vita e la propria relazione di coppia.

La risposta alle diffuse domande con cui ogni coppia sterile deve sapersi confrontare (la prova della sterilità per una coppia è la smentita della sua fecondità? È la fine del desiderio del figlio ed è la fine della relazione?) non è scontata e può avere esiti molto diversi. La scelta dell’adozione costituisce una forma privilegiata della risposta alla prova della sterilità. Nella decisione di adottare, la sterilità diventa feconda e consente di riscoprire la grazia della sterilità, oltre la prova: l’adozione è il possibile dono, al di là della sterilità[3].

L’adozione: vocazione nella sterilità, risposta per l’abbandono.

L’adozione è dunque una delle forme, pensiamo la privilegiata, in cui può esprimersi la fecondità di una coppia segnata della esperienza della sterilità.

La forma più diffusa dell’adozione realizza un incrocio singolare tra il cammino dei coniugi sterili e l’abbandono patito da un figlio. Come già anticipato è fuori dubbio che l’adozione sia accessibile anche per la coppia non sterile: essa, infatti, è in radice la risposta a un appello. Prima ancora che compimento del “vuoto” della sterilità, l’accoglienza adottiva è propriamente la risposta alla chiamata che nasce dall’abbandono di un figlio che, dopo essere stato generato, è stato definitivamente abbandonato.

L’abbandono subìto è un’esperienza difficile e una ferita dolorosa, che incide sull’identità profonda; infatti, l’abbandono mette decisamente a repentaglio l’identità filiale di ogni uomo[4]. L’abbandono innesca un processo di reinterpretazione di sé lasciando un vuoto e interrompendo una relazione costitutiva della propria storia; tuttavia, la perdita non è mai definitiva sia perché all’origine dell’abbandono possono esserci motivazioni che in realtà nascondono un dono, sia perché l’abbandono stesso può essere “raccolto”. Con l’adozione una coppia risponde al “grido” silenzioso di chi è stato abbandonato, facendo diventare “proprio” un figlio che non era più figlio[5].

L’adozione è un’autentica sfida poiché rivela come la paternità e la maternità nella coppia non siano mai riducibili a questione puramente biologica, ma costituiscono un atto creativo. L’adozione non è un semplice rimedio, un surrogato o una sostituzione di una paternità/maternità mancanti. Se nell’adozione mancano il tempo dell’attesa nel proprio grembo e l’esperienza del parto, in essa si richiama squisitamente l’esperienza più specifica della relazione filiale: l’accettazione incondizionata, poiché essere figli significa sapere di essere amati in modo incondizionato. Nell’adozione, l’incondizionatezza dell’accoglienza significa che ti è dato e tu accetti di accogliere come “tuo” figlio, un figlio che tu non hai procreato. Questa condizione esclusiva esalta la gratuità del dono che qualifica, come tale, la relazione tra genitori e figli.

Sterilità e adozione: pastorale familiare, esperienze associative, conversione di approcci e pratiche.

Anzitutto, è opportuno richiamare che nella Chiesa la famiglia, prima che oggetto, è un soggetto di pastorale, propriamente familiare. Essa non è riducibile a semplice esecutrice di un’opera pastorale, ma è interprete fondamentale della missione evangelizzatrice della Chiesa[6]. È possibile evidenziare la qualità testimoniale dell’opera e della presenza della famiglia nella Chiesa” intuendo almeno una duplice direzione per la sua “ministerialità”: la prima consiste in tutte le forme di impegno che vedono le famiglie affiancare le modalità più tradizionali e ordinarie dell’attività pastorale (la partecipazione e/o l’accompagnamento ai percorsi di preparazione al matrimonio; la costituzione e l’inserimento in gruppi o movimenti di spiritualità; l’animazione e la partecipazione a iniziative educative, …); si possono inoltre cogliere forme ulteriori di “ministerialità coniugale”, come la formazione di comunità-di-famiglie, aperte all’accoglienza o la disponibilità di famiglie singole a costituire comunità-famiglia, aperte all’accoglienza di minori in difficoltà. In questo quadro, una forma di “servizio” familiare, nella quale si valorizza la specifica identità della famiglia stessa, è l’accoglienza affidataria o adottiva.

Nel quadro di tale orizzonte, ci limitiamo ad alcune considerazioni sulle forme più specificamente legate all’adozione, anche internazionale, accennando sinteticamente ad attività, premure e attenzioni da sviluppare in una pluralità di strategie pastorali, per evidenziare nell’accoglienza familiare adottiva e affidataria un’opportunità profetica e uno specifico carisma. Anche nelle comunità cristiane la prassi della cura dell’abbandono ha registrato e continua ad offrire, a motivo di determinati contesti storici, sociali e culturali, modalità e forme di accoglienza sostitutiva o sussidiaria a quella data dalla stabile presenza di una madre e di un padre. Richiamando l’invito di Giovanni Paolo II, in chiusura del Messaggio per la Quaresima 2004[7], “a esaminare come sono trattati i bambini nelle nostre famiglie, nella società civile e nella Chiesa”, si tratta di trovare le forme concrete della sollecitudine nei confronti dei bambini abbandonati e vissuta nel nome del Signore: mentre occorre proseguire nel rilancio di una forte attenzione all’infanzia abbandonata e/o assistita in istituto, per impedire l’eclissi di questo tema dall’agenda degli impegni e delle attenzioni sociali ed ecclesiali, è prioritario che le comunità cristiane si facciano responsabilmente carico, senza indugi e reticenze, del destino dei bambini in istituto, orfani o abbandonati, rilanciando l’accoglienza familiare, che dovrebbe ispirare e orientare ogni tipo di servizio nei confronti dei bambini abbandonati.

Occorre passare dalla prassi dell’ospitalità e dell’assistenza protratta nel tempo, verso il suo superamento nell’accoglienza familiare, con il sostegno dei coniugi e delle famiglie disponibili all’adozione ed all’affido, promuovendo una pastorale che accompagni i fidanzati che si accostano al sacramento del matrimonio, e soprattutto i giovani sposi, perché siano disponibili alle feconde prospettive della coniugalità aperta alle diverse forme dell’accoglienza, oltre le condizioni di fertilità o sterilità, promuovendo l’adozione e l’affido[8]. A sostegno di questa prassi è opportuno valorizzare nei percorsi di spiritualità coniugale l’attenzione all’accoglienza familiare per far emergere la qualità spirituale dell’esperienza adottiva[9], così come è importante la valorizzazione di movimenti e associazioni ecclesiali che favoriscano la “rete” e la cooperazione delle famiglie adottive e affidatarie[10]. 

 Gianmario Fogliazza – Centro studi La Pietra Scartata

Sterilità feconda. Il libro

Chi volesse approfondire l’argomento della “Sterilità Feconda” può farlo acquistando il volume, curato dal Presidente di Ai.Bi. Marco Griffini: “Sterilità feconda – Un cammino di grazia”.

Attraverso il racconto di esperienze dirette e personali e alcune riflessioni teologico-spirituali, Griffini propone un percorso che fa comprendere come la sterilità non sia sempre una dis-grazia, ma una vera e propria grazia. La grazia di vivere un’altra forma di fecondità, non più biologica, non più fisica, ma spirituale, sociale, che spesso sfocia nell’adozione di quel bambino che la Provvidenza ha destinato proprio a quella coppia. Per acquistare il libro QUI

 

 

 

 

 

[1] Cf M. Griffini, Sterilità feconda: un cammino di grazia, Milano 2009 e il contributo di M. Chiodi, il senso antropologico della sterilità nella coppia, in Lemà sabactàni? n.9(2012), 43-61 .

[2] Cf sul tema la più articolata riflessione proposta da M. Griffini-G. Fogliazza, Adottare oggi: le diverse strade, in Famiglia Oggi n. 2(2013), pp. 52-60.

[3] Cf M. Griffini, Sterilità feconda: un cammino di grazia, Milano 2009 e il contributo di M. Chiodi, il senso antropologico della sterilità nella coppia, in Lemà sabactàni? n.9(2012), 43-61 .

[4] Cf su questo tema il terzo numero di Lemà sabactàni?, n.3(2009). Sul nesso tra identità e abbandono, cf pure il contributo di M. Chiodi, Il profilo antropologico ed etico dell’adozione, in Lemà sabactàni? n.1(2008), 73-92.

[5] Su questo “grido” del bambino, in parallelo al “grido” di Gesù sulla croce, cf il testo di M. Griffini, Il mistero dell’abbandono e la grazia dell’accoglienza, in Lemà sabactàni? n.1(2008), 15-52. Cf inoltre lo studio e la rielaborazione proposta da M. Griffini, … ma Dio tace. Abbandono, speranza, adozione, Milano 2012.

[6] Sarebbe da approfondire, a questo proposito, la possibilità di pensare anche nuovi modelli interpretativi della missione evangelizzatrice. Interessante, in questa linea, è lo studio di L. Bressan, La logica abbandono-accoglienza come paradigma dell’esperienza ecclesiale, in Lemà sabactàni? n.2(2008), 33-52, che, a partire dalla esperienza dell’adozione, intende evidenziare come la struttura abbandono/accoglienza sia un paradigma della stessa Chiesa.

[7] Cf Messaggio di Giovanni Paolo II per la Quaresima 2004, “Chi accoglie anche uno solo di questi bambini in nome mio, accoglie me (Mt 18,5) ”, Città del Vaticano, 8 Dicembre 2003.

[8] Cf a proposito, anche se ancora in forma timida e contratta, il richiamo in tal senso nel documento della Commissione Episcopale per la famiglia e la vita della C.E.I. Orientamenti pastorali sulla preparazione al matrimonio e alla famiglia (punto n. 32 – “una piena fecondità”). Cf, inoltre, la richiesta formulata da Giovanni Paolo II nell’Esortazione apostolica Ecclesia in America cap. V, n. 63. Per una sintetica recensione del rilievo ecclesiale dell’accoglienza adottiva cf M. Chiodi – G. Fogliazza, «Accogliere nel Suo nome». Il profilo etico ed ecclesiale dell’esperienza adottiva, in «La Rivista del Clero italiano» 4(2009), pp. 284-289.

[9] A tale specifico carisma è ad esempio ispirata l’Associazione “La pietra scartata” (statuto, attività e informazioni disponibili sul sito web www.lapietrascartata.it). Cf  anche il contributo di A. Fraccaro, La qualità spirituale dell’esperienza adottiva, in «Lemà sabactàni?» n.2(2008), pp. 7-31.

[10] Anche i Vescovi italiani hanno opportunamente ricordato che se una famiglia si dimostra disponibile, non va lasciata sola, ma deve avvertire attorno a sé una rete di solidarietà concreta, fatta non solo di complimenti ed esortazioni, ma di tante forme di aiuto e di solidarietà; infatti, chi si rende disponibile per l’adozione o l’affido, deve sentirsi parte di un’avventura collettiva, in cui gli altri ci sono, vivi e presenti (cf “Fidarsi della vita”, Messaggio del Consiglio Episcopale Permanente per la 27a Giornata nazionale per la vita).

 

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