Venezia: i Leoni d’oro mancati da vedere in tv

Non sempre il percorso d’identificazione di un’opera d’arte assume una direzione lineare.

A volte l’emersione del suo valore reale viene ostacolata da preconcetti e sottovalutazioni. Altre volte è la mancanza di visibilità a relegarla in un cono d’ombra da cui fatica a uscire. Sicché tocca spesso al tempo, arbitro galantuomo e imparziale, ristabilire le giuste proporzioni, restituendo al pubblico, nel breve o nel lungo termine, l’opera stessa nello splendore della sua potenza comunicativa.

Non di rado ciò è accaduto nell’ambito cinematografico, dove film oggi osannati ed elevati al rango di pietre angolari della settima arte, alla loro prima uscita non hanno ottenuto il giusto successo.

È capitato anche ad alcuni lungometraggi presentati alla Mostra del Cinema di Venezia, i quali, pur successivamente riconosciuti come capolavori assoluti, nell’ambito della stessa kermesse o hanno ottenuto tiepidi riscontri, oppure, nonostante siano stati premiati, avrebbero meritato qualcosa in più.

Un elenco esaustivo è impossibile da stilare. Ci limiteremo a ricordare alcuni degli episodi veneziani più significativi.

Venezia e i Leoni d’Oro mancati

Paisà e la freddezza della critica

Non possiamo che partire da lontano, riportandoci a quelle edizioni della Mostra successive al secondo conflitto mondiale, finalmente libere dai condizionamenti della propaganda fascista.

Siamo nel 1946. Il neorealismo italiano inizia a conquistare le platee di tutto il mondo. Reduce dal successo di Roma città aperta (1945), Roberto Rossellini presenta a Venezia il suo nuovo film, Paisà (1946), racconto in sei episodi in cui il regista romano segue idealmente le forze alleate dalla Sicilia al delta del Po nel processo di liberazione dell’Italia dall’occupazione nazifascista. La metafora della riunificazione e del riscatto di un Paese ancora ferito da anni di guerra e devastazione è di tutta evidenza. Lo stile è asciutto, a tratti documentaristico. Rossellini gioca molto sul contrappunto linguistico-culturale tra angloamericani e italiani, ne approfondisce accuratamente le dinamiche riuscendo a ricavare attimi d’umanitario respiro (il rapporto tra il bambino napoletano e il soldato statunitense; l’incontro tra religiosi all’interno del convento romagnolo) pur restando nell’ambito di una narrazione dal registro fortemente drammatico.

Paisà verrà ben presto riconosciuto come caposaldo della corrente neorealista e, unitamente al già citato Roma città aperta e a Germania anno zero (1948), andrà a costituire quella che verrà definita come la rosselliniana “trilogia della guerra antifascista”.

Il lungometraggio verrà premiato nel 1947 con tre Nastri d’Argento (miglior film, migliore regia e migliore colonna sonora) e nel 1950 otterrà la nomination all’Oscar per la miglior sceneggiatura. Eppure nel 1946 a Venezia incontrerà la freddezza della critica, pur venendo segnalato come film di particolare interesse.

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Paisà

Il cinema giapponese degli anni ‘50: I racconti della luna pallida d’agosto e L’arpa birmana  

Negli anni ‘50 la scuola giapponese irrompe nel panorama cinematografico mondiale. Autori come Kurosawa, Ozu e Mizoguchi contribuiscono, assieme ad altri, a far conoscere al pubblico internazionale il cinema di casa propria. Venezia non si lascia sfuggire il nuovo che avanza, ed anzi contribuisce notevolmente alla sua affermazione assegnando nel 1951 il Leone d’oro a Rashomon (1950) del citato Akira Kurosawa, splendido film che, basandosi sulla ricostruzione di un delitto secondo quattro diversi punti vista, riflette sulla natura umana attraverso il tema della menzogna e della verità. Il successo veneziano di Rashomon non verrà però replicato da due capolavori dell’altro grande regista nipponico Kenji Mizoguchi, il quale, dopo aver presentato nel 1952 Vita di O-Haru, donna galante (1952), doloroso e lirico ritratto di donna, nonché emblema e denuncia della condizione femminile nel Giappone feudale, concorrerà alla rassegna lagunare del 1953 con I racconti della luna pallida d’agosto (1953). Si tratta di una pellicola ambientata sul finire del ‘500, dove, sullo sfondo di una guerra tra potenti signorie giapponesi, si dipanano le storie del vasaio Genjuro (Masayuki Mori) e di suo cognato Tobei (Eitaro Ozawa), i quali, accecati dalle proprie ambizioni, non ascoltando gli inviti alla pacatezza delle rispettive mogli, Miyagi (Kinuyo Tanaka) e Ohama (Mitsuko Mito), partono lasciandole sole in balia degli eventi più violenti e crudeli. Dopo aver saggiato il peso della propria vanità, i due uomini, pentiti, faranno ritorno dalle loro spose. Ma nulla sarà più come prima.

Mizoguchi incrocia elementi realistici e sovrannaturali in una storia di fantasmi intrisa di simbolismi che al contempo è parabola sulla vera felicità ed elogio della semplicità. Anche qui il maestro nipponico prosegue il suo discorso sulla condizione femminile, affidando alle donne, costrette a vivere in modo subalterno dentro una società dominata dai conflitti e dall’avidità degli uomini, il compito di rappresentare, nelle declinazioni reali e fantasmatiche, quegli elementi di coscienza critica e ragionevolezza mancanti alla parte maschile. Ad esse è attribuito il compito di introdurre quegli spunti di riflessione in grado di superare il racconto in sé e di riverberarsi nell’epoca moderna. Ed è in tal senso che I racconti della luna pallida d’agosto può essere inteso, tra le molteplici chiavi di lettura, come apologia al contempo drammatica e poetica dell’universo femminile che Mizoguchi, superando preconcetti e strutture patriarcali, intende presentare nel pieno della sua dignità e delle sue virtù.

Il film riporterà un buon successo finendo per ottenere il Leone d’argento assieme ad altri lungometraggi, tra cui l’indimenticabile I vitelloni (1953) di Federico Fellini. Ma subirà la ferita di un Leone d’oro non assegnato poiché – a detta della giuria di allora – nessuna opera in concorso si sarebbe imposta per valore assoluto. Il tempo e una più attenta analisi smentiranno tale giudizio. Ad oggi, infatti, il lungometraggio di Mizoguchi viene ritenuto una delle più alte espressioni della cinematografia mondiale ed è costante riferimento e fonte d’ispirazione per i cineasti più sensibili e impegnati: il valore assoluto de I racconti della luna pallida d’agosto, dunque, è ormai conclamato.

I Vitelloni è su Infinity

L’arpa birmana tra i leoni mancati

Quanto accaduto a I racconti della luna pallida d’agosto nel 1953 a Venezia, si ripeterà nel 1956, sempre nell’ambito della stessa kermesse, per un altro film giapponese: L’arpa birmana (1956) di Kon Ichikawa. È la storia del soldato nipponico Mizushima (Shoji Yasui) che, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, trovatosi in Birmania insieme agli altri suoi commilitoni ormai sconfitti, anziché tornare a casa preferisce farsi monaco buddista e dedicarsi alla cura dei corpi dei soldati morti rimasti insepolti. L’arpa birmana rappresenta un film struggente e anomalo, dal ritmo lasco e denso di poesia. In un racconto intriso di autentica spiritualità, la pietà e la carità umana sono la potente risposta all’orrore della guerra. Ichikawa fa ricorso all’uso simbolico della musica e del canto qui elevati a veicoli d’unione e solidarietà tra gli uomini. La pellicola viene accolta positivamente. L’arpa birmana è indicata come possibile vincitrice del premio veneziano più prestigioso. Eppure anche questa volta la giuria deciderà sorprendentemente di non assegnare il Leone d’oro con delle motivazioni perlopiù sovrapponibili a quelle del 1953. Il capolavoro di Ichikawa dovrà così accontentarsi del Premio San Giorgio. Ma è indubbio che a Venezia, per le sue intrinseche qualità e per essere ancora oggi uno dei più importanti manifesti cinematografici del pacifismo universale, avrebbe meritato un riconoscimento più importante.

Venezia e i Leoni d’Oro mancati

Le mancate vittorie di Luchino Visconti

Le polemiche maggiori che ad oggi il festival di Venezia ricordi sono quelle legate alla duplice mancata vittoria del Leone d’oro da parte di Luchino Visconti. La prima di queste risale al 1954, allorquando il regista milanese presenta in laguna il suo Senso (1954), melodramma storico-risorgimentale d’impianto sontuoso ambientato nel 1866, che, nell’ambito della Terza guerra d’indipendenza italiana, narra della lacerante storia d’amore tra il tenente dell’esercito austriaco Franz Mahler (Farley Granger) e la contessa veneziana Livia Serpieri (Alida Valli).

Senso, pur aprendosi ad una complessa molteplicità semantica, in specie connessa al quadro storico e sociale, rappresenta intimamente un racconto sulla forza dell’amore – capace di scardinare relazioni, principi e ideali – e sulla sua drammatica illusorietà, con cui Visconti, dando dimostrazione della propria eleganza nella cura dei dettagli e della composizione scenica, si discosta dagli stilemi neorealisti. L’opera risulta di qualità assoluta, ma è gravata da accuse di disfattismo e dall’intervento della censura che inizialmente ne ostacolano il percorso e il giusto riconoscimento. A Venezia, Senso, nonostante la potenza figurativa e narrativa, non riuscirà ad ottenere alcun premio, suscitando così da più parti contestazioni e polemiche.

Contestazioni e polemiche che non mancheranno anche nel corso della rassegna veneziana del 1960, dove lo stesso Visconti presenterà  Rocco e i suoi fratelli (1960), cupa saga che, lasciando dialogare neorealismo, melodramma e tragedia greca, narra delle vicende di un’intera famiglia costretta, alla morte del padre, ad emigrare dalla Lucania a Milano. Ci troviamo al cospetto di un film che si alimenta di contrasti – le differenti culture nord/sud, i caratteri opposti (e le opposte traiettorie) dei fratelli Rocco (Alain Delon) e Simone (Renato Salvatori), nonché, esteticamente, il deciso contrappunto nel b/n di Giuseppe Rotunno – tanto da far assurgere la tradizione familiare della pratica della boxe ad elemento allegorico di una lotta per la sopravvivenza che si esalta tragicamente nella sequenza dello stupro di Nadia (Annie Girardot) e in quella in cui la stessa viene uccisa.

Rocco e i suoi fratelli

In tal senso, Rocco e i suoi fratelli è un’opera che stride fortemente con la narrazione celebrativa di un’Italia prossima al compimento del suo primo centenario, tutta protesa all’esaltazione di un boom economico di cui, tuttavia, il film stesso evidenzia le asimmetrie. Ed è forse per tale motivo che quello che probabilmente è il capolavoro assoluto di Luchino Visconti diviene oggetto di critiche ingenerose e strumentali, nonché – come per Senso – dell’intervento della censura. Fiaccato da questi episodi, Rocco e i suoi fratelli, nonostante sia destinato a diventare uno dei lungometraggi più importanti della storia del cinema, a Venezia dovrà accontentarsi del Leone d’argento, sebbene dagli addetti ai lavori venisse già acclamato come Leone d’oro predestinato. La giuria però, tra molteplici obiezioni, gli preferirà Il passaggio del Reno (1960) di André Cayatte, rinviando l’incontro tra il premio più prestigioso e Visconti al 1965, anno in cui finalmente il grande regista milanese vincerà la kermesse lagunare con Vaghe stelle dell’Orsa… (1965).

Rocco e i suoi fratelli è su Raiplay

Il caso Querelle de Brest

La fine del decennio di crisi della rassegna veneziana (1969/1979) segnala un nuovo episodio controverso. Siamo nel 1982. Nel giugno dello stesso anno il grande, discusso regista Rainer Werner Fassbinder muore a causa di un’overdose. A Venezia viene presentata la sua opera postuma, Querelle de Brest (1982), racconto tratto dall’omonimo romanzo di Jean Genet in cui si narrano le avventure omosessuali del marinaio Querelle (Brad Davis).

Con il suo ultimo lungometraggio, Fassbinder torna sui temi da lui già ampiamente scandagliati del rapporto tra Eros e Thanatos, ribadendo la sua sostanziale visione pessimista delle relazioni umane, perlopiù caratterizzate da dinamiche aggressive e sopraffattorie. Querelle de Brest è un film volutamente disturbante ed eccessivo, a partire dall’impianto scenico antinaturalistico e dai dialoghi improntati ad una straniante alternanza aulico/volgare. Il suo protagonista domina la scena: seduce, uccide e tradisce in un vortice distruttivo a metà tra espiazione e liberazione, forse soltanto alla ricerca/affermazione del profondamente umano in sé. Perché Querelle conosce “il terrore di essere solo, prigioniero nel mondo dei viventi”.

La pellicola – ca va sans dire – suscita lo scandalo dei benpensanti, e prima della distribuzione la censura interviene tagliandola di circa due minuti. Ma a Venezia viene strenuamente difesa dall’allora presidente della giuria, il grande regista francese Marcel Carné, che ne caldeggia la vittoria del Leone d’oro. Il cineasta francese cercherà di convincere gli altri giurati a conferire il premio più ambito all’opera fassbinderiana. Ma sarà inutile. A Venezia Querelle de Brest non otterrà alcun riconoscimento, mentre il Leone d’oro verrà conferito a Wim Wenders per il suo Lo stato delle cose (1982). Incassata la sconfitta, Carné dichiarerà comunque di essere convinto che Querelle de Brest un giorno avrebbe avuto un posto nella storia del cinema. Così in effetti sarà, se è vero che ad oggi l’opera d’addio di Fassbinder è ritenuta un autentico cult-movie ancora oggetto delle più disparate, cinefile discussioni e interpretazioni.

Gli anni ‘90: Un angelo alla mia tavola e Lanterne rosse

L’ultimo decennio del ‘900 si apre all’insegna di nuove polemiche. Siamo nel 1990, anno in cui la Mostra del Cinema di Venezia viene ammaliata dal talento della neozelandese Jane Campion, che in laguna porta il suo Un angelo alla mia tavola (1990), splendido ritratto biografico di Jane Frame (Kerry Fox, nei panni della Jane adulta; Karen Fergusson e Alexia Keogh rispettivamente in quelli di Jane bambina e Jane adolescente), famosa scrittrice anch’essa neozelandese costretta ad otto anni di manicomio e 200 elettroshock per un’erronea diagnosi di schizofrenia.

Evitando abilmente facili patetismi e giocando registicamente con l’espressività cangiante di un’ottima Kerry Fox, la giovane autrice realizza un lungometraggio potente e drammatico – inizialmente strutturato in tre puntate per la televisione – che tocca il suo apice di angoscia e commozione nelle sequenze all’interno dell’ospedale psichiatrico. Un angelo alla mia tavola è un racconto sulla forza salvifica della scrittura, ma anche uno spaccato sui pregiudizi legati alla diversità con cui la Campion, dopo l’esordio cinematografico con Sweetie (1989), continua il suo percorso narrativo legato a figure femminili “diseguali” che negli anni a venire proseguirà con pellicole di assoluto valore, come il meraviglioso Lezioni di piano (1993) e Ritratto di signora (1996).

Alla rassegna veneziana del 1990, Un angelo alla mia tavola conquisterà critica e pubblico riportando la vittoria del Leone d’argento. Ma resterà l’amaro in bocca per un mancato Leone d’oro che in molti avrebbero voluto vedergli attribuito.

Chiudiamo questo breve excursus con un film che ha conquistato le platee di tutto il mondo ed è già nella storia del cinema. Nel 1991 a Venezia sbarca il regista cinese Zhang Yimou e il suo Lanterne rosse (1991). La pellicola racconta la storia di Songlian (Gong Li), giovane studentessa che, negli anni ’20 del Novecento, rimasta orfana di padre, sposa il ricco Chen Zuoqin (Ma Jingwu) diventandone la quarta moglie. Songlian dovrà competere con ogni mezzo con le altre tre mogli per ottenere le attenzioni dello sposo.

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Lanterne rosse

In una cornice eccellente dal punto di vista scenico e fotografico, Zhang Yimou dà vita ad un racconto sulla condizione femminile nella Cina dell’epoca basato sulle perverse dinamiche del potere e della vendetta. Ordinato, simmetrico e raffinato nella forma, Lanterne rosse è un film disperatamente feroce nella sostanza. Venezia ne è conquistata. La storia della cinica lotta tra le quattro concubine rinchiuse nel claustrofobico palazzo di Chen Zuoqin, dove “non ci sono esseri umani: ci sono topi, gatti, cani, ma esseri umani di certo no”, conquista gli addetti ai lavori. Eppure la pellicola – tra le migliori di Zhang Yimou ed una delle più importanti della cinematografia orientale – pur costituendo la vera sorpresa dell’edizione della Mostra del 1991, non riesce ad ottenere il Leone d’oro, venendo comunque premiata col Leone d’argento per la miglior regia. Zhang Yimou si rifarà l’anno seguente, quando nel 1992 vincerà il premio più ambito con il film La storia di Qiu Ju (1992). Il film fu poi candidato al Premio Oscar per il Miglior film straniero nel 1992.

Leoni d’oro mancati a Venezia conclusioni

Polemiche, delusioni, incomprensioni: quasi ogni competizione inevitabilmente ne porta lo strascico. Tanto più se la competizione stessa è legata all’ambito artistico, dove la definizione di un parametro valutativo di carattere oggettivo – misurabile come nello sport in termini spazio-temporali – effettivamente è difficile da individuare. D’altronde resta irrisolta l’antica questione legata alla definizione di opera d’arte.

E così ogni giudizio, per quanto pregiato e frutto di profonde competenze, non può non risentire di un certo grado di soggettività. Ma proprio in ciò consiste il fascino dell’arte in sé e di manifestazioni come la kermesse cinematografica veneziana: nella capacità di suscitare dibattiti, controversie e riflessioni, che già di per sé sono attestazione di valore di un’opera. E poco importa se inizialmente quest’ultima non viene compresa o è sottovalutata: il tempo – come si è già detto – restituisce il giusto merito. D’altronde – scriveva il grande Francis Scott Fitzgerald – “in any case you mustn’t confuse a single failure with a final defeat”, non bisogna mai confondere una singola sconfitta con una sconfitta definitiva.

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