HIROSHIMA E NAGASAKI APPARTENGONO PIÙ ALLA TERZA GUERRA MONDIALE CHE ALLA SECONDA

Tra due “effetti collaterali”, meglio quello “tattico”?

«Guardando il mondo nel suo insieme, la deriva per molti decenni non è stata verso l’anarchia, ma verso la re-imposizione della schiavitù … La teoria di James Burnham è stata molto discussa, ma poche persone hanno ancora considerato le sue implicazioni ideologiche – cioè, il tipo di visione del mondo, il tipo di convinzioni e la struttura sociale che probabilmente prevarrebbero in uno stato che era allo stesso tempo invincibile e in uno stato permanente di “guerra fredda” con i suoi vicini.» (George Orwell, “You and the Atomic Bomb“, Tribune 19 October 1945).

“The Managerial Revolution”

Il filosofo statunitense Burnham aveva pubblicato, nel ’41, “The Managerial Revolution”, un libro che speculava sul futuro del capitalismo soppesando tre possibilità: (1) che il capitalismo fosse una forma permanente di organizzazione sociale ed economica per cui sarebbe continuato indefinitamente; (2) che invece fosse temporaneo e destinato per sua natura a crollare per venire sostituito dal socialismo; (3) che si stesse attualmente trasformando in una futura forma di società non socialista e forse nemmeno più effettivamente liberale. 

La disoccupazione di massa mondiale del periodo appena trascorso di “depressione economica” avrebbe costituito “un sintomo che un dato tipo di organizzazione sociale sia quasi giunto al suo termine“.

Il “New Dealism”

Se la proprietà fosse stata corporativa e privata oppure statalista e governativa, la demarcazione essenziale tra l’élite dominante (dirigenti e manager sostenuti da burocrati e funzionari) e la massa della società non sarebbe stata tanto la proprietà in se stessa quanto il controllo dei mezzi di produzione. 

Nonostante non si trattasse d’un’ideologia manageriale sviluppata e sistematizzata, il “New Dealism” di Roosevelt aveva in qualche modo contribuito a spingere il capitalismo americano verso una direzione decisamente “manageriale”. 

Nella sua maniera più confusa, e meno avanzata, anche il New Dealism ha diffuso  un’accentazione sulla pianificazione contro l’impresa privata, sullo stato contro l’individuo, la sicurezza contro l’iniziativa, i “diritti umani” contro i “diritti di proprietà”, il lavoro (anche se assistenziale) contro le opportunità d’impresa. Tutto ciò avrebbe indubbiamente minato la fiducia del pubblico nelle idee e nelle istituzioni capitaliste, preparando gli animi delle masse all’accettazione d’una  struttura sociale di tipo manageriale. 

Un machiavellico difensore di libertà?

Burnham era stato certamente influenzato dall’idea del collettivismo burocratico del trotskista Yvan Craipeau, ma ne aveva respinto il punto di vista marxista, preferendo quello machiavellico, e forse liberal-conservatore, nel distinguere quell’importante differenza filosofica poi esplorata in modo più dettagliato, nel ’43, con “The Machiavellians: Defenders of Freedom”. Aveva però anche utilizzato gli stessi strumenti di analisi e le medesime argomentazioni enunciati per la prima volta ne “La Bureaucratisation du Monde” dal politico mantovano Bruno Rizzi. Entrambi (e Burnham e Rizzi), in ogni caso, avrebbero contribuito a ispirare la distopia orwelliana di “1984”.

I tre grandi imperi

«Poiché l’immagine geografica del nuovo mondo di Burnham s’è rivelata corretta. Sempre più ovviamente la superficie della terra viene suddivisa in tre grandi imperi », aggiungeva lo scrittore britannico in “You and the Atomic Bomb” (1945), riferendosi alle superpotenze dell’Oceania, dell’Eurasia e dell’Est-Asia, almeno in parte influenzate dalla valutazione di Burnham dell’America di Roosevelt, della Germania nazista e dell’Unione Sovietica, quali “stati manageriali”.

La prospettiva della globalizzazione

I governanti di questa nuova società universale, ormai in via di galoppante “globalizzazione”, diremmo oggi, saranno coloro i quali possono controllare efficacemente i mezzi di produzione: cioè dirigenti d’azienda, tecnici, burocrati e soldati, da Burnham raggruppati insieme sotto il nome di “manager”. Costoro avrebbero eliminato la vecchia classe capitalista, ma avrebbero tuttavia schiacciato quella operaia, riorganizzando la società mondiale in modo tale che tutto il potere e i privilegi economici potessero rimanere ben saldi nelle loro mani.

Una “tecnocratizzazione” forzata 

Aboliti i diritti di proprietà privata, non sarà comunque stabilita alcuna proprietà comune. Al loro interno, ogni società sarà gerarchica, con all’apice una sorta di aristocrazia (di tecnocrati) di talento e in ​​fondo, per la stragrande maggioranza, una massa di servi della gleba semi-schiavizzati. Queste nuove società “manageriali”, inoltre, non saranno costituite da un mosaico di piccoli stati indipendenti, ma da grandi “superstati” confederati e raggruppati attorno ai principali centri industriali in America, Europa, Asia. E tali superstati combatteranno tra loro per il possesso delle restanti porzioni di terra (Africa?) non ancora assoggettate (o da continuare a colonizzare?), o catturate, che dir si voglia, anche se con molta probabilità non saranno mai in grado di conquistarsi completamente a vicenda. 

«Hiroshima e Nagasaki appartengono più alla Terza che non alla Seconda Guerra Mondiale» dice con cinica ironia il prof. Groeteschele, il personaggio interpretato da Walter Matthau, nel film “A prova d’errore” (Fail-Safe) diretto da Sidney Lumet nel 1964 e basato sull’omonimo romanzo scritto da Eugene Burdick e Harvey Wheeler due anni prima. 

Fail-Safe, un “sacrificio di Abramo”

Quel titolo originale, Fail-Safe, è relativo a un meccanismo di sicurezza pronto a scattare per evitare ulteriori disastri, in caso d’un iniziale danno. E qui, per scongiurare la “terza” guerra mondiale, s’immagina che ci si debba rassegnare a eseguire un “sacrificio di Abramo”, quale sanguinosa e insana contropartita all’errore compiuto, anche se del tutto involontariamente. Per ristabilire l’equilibrio con l’improvvido bombardamento sulla capitale russa verrà deliberatamente distrutta New York! 

La crisi missilistica cubana

In effetti, in quell’autunno di sessanta anni orsono, in piena atmosfera da “guerra fredda”, la paura atomica non era una mera moda culturale, perché la crisi missilistica cubana (16 – 28 ottobre 1962) aveva già innescato una drammatica possibilità d’assurda apocalissi, con imminenti scontri reali tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. 

Tredici giorni

Il film di Roger Donaldson del 2000, con lo stesso titolo, Thirteen Days, del libro del 1969 dell’ex procuratore generale Robert F. Kennedy (RFK, o Bob), in realtà è invece basato su quello di Ernest R. Maggio e Philip D. Zelikow del 1997, The Kennedy Tapes: Inside the White House During the Cuban Missile Crisis.

Concedere qualche via d’uscita all’avversario

Il precedente docudrama realizzato su quella crisi, risaliva al ’74, The Missiles of October ed evocava il titolo del libro del 1962 The Guns of August di Barbara Tuchman, incentrato sul primo mese della prima guerra mondiale, sui passi falsi tra le grandi potenze e soprattutto sul gravissimo errore di non concedere all’avversario una qualche via d’uscita, non del tutto disonorevole, mentre la sceneggiatura di Stanley R. Greenberg per il film di Anthony Page è basata sul libro di Bob Kennedy, Thirteen Days: A Memoir of the Cuban Missile Crisis, pubblicato postumo, dopo il suo assassinio.

“Occhio per occhio”  

A sostenere la tesi finale prospettata dal protagonista di “A prova d’errore” è un’ambiguità di fondo che arriva a scagionare eventuali colpevoli, attribuendo gli errori assolutamente da evitare all’imponderabile “macchinazione” del “macchinario” medesimo, piuttosto che a quanti sono addetti alla sua programmazione, costruzione e supervisione, nonché a prospettare la decisione di prevenire  la catastrofe definitiva per come si dirimevano un tempo le controversie medievali, secondo il contrappeso d’un arcaico “occhio per occhio, dente per dente”. 

Chiunque abbia scagliato la prima pietra, significa che l’umanità è diventata abbastanza stupida da causare la propria estinzione attraverso armi che non poteva assolutamente usare in modo responsabile senza prima considerare le conseguenze.

Red Alert

Nello stesso periodo di “A prova d’errore” compariva “Il Dottor Stranamore – ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba”, a raccontare una vicenda molto simile, ma con una dose massiccia di feroce umorismo nero e un disincanto sottilmente critico. La pellicola di Kubrick era liberamente ispirata al romanzo (1958) di Peter George, Red Alert, allontanandosene comunque  in modo significativo, proprio nel virare verso la black comedy.  

A quando la catastrofe?

Nel Regno Unito, la novella era apparsa col titolo: Two Hours to Doom (due ore al Disastro), e l’autore aveva fatto ricorso allo pseudonimo di “Peter Bryant”, che nella traduzione francese si ribaltava in Bryan Peters con l’intestazione di 120 minutes pour sauver le monde (120 minuti per salvare il mondo), che farebbe ipotizzare, al di là e al di qua della Manica, una ben diversa prospettiva temporale e di angolazione pessimistica in un caso e maggiormente speranzosa nell’altro. Nell’affrontare la minaccia apocalittica della guerra nucleare, anche questo romanzo denuncia e sottolinea la quasi assurda facilità con cui può essere attivata e portata a compimento. 

On the Beach

Di questo genere di narrativa anticipatrice d’una tale attualità, Red Alert è stato tra i primi esempi sorti alla fine degli anni ’50, di poco (un anno appena) preceduto solo da On the Beach di Nevil Shute, dove si descrivevano in dettaglio le differenti reazioni emotiva nell’affrontare la morte imminente da parte d’un gruppo misto di persone comuni in attesa dell’arrivo a Melbourne delle radiazioni mortali diffuse  verso il loro continente dall’emisfero settentrionale, già annientato a seguito d’una guerra nucleare esplosa un anno prima. Anche questa storia è stata adattata per lo schermo nel 1959 da Stanley Kramer, che, nell’inquadrare le città spopolate, alla sua opera ha dato un taglio documentaristico a dir poco “efficace e inquietante”. 

Quasi per istinto, la paura della morte spinge ognuno a desiderare una fine insieme con tutti gli altri esseri umani, e nello stesso momento. È una pazzia certamente, ma forse solo per chi sopravvive al pericolo, o quanto meno presume di poterlo fare.

Il lamento di uomini vuoti

L’essere “sulla spiaggia” (On the Beach) significa “ritirato dal servizio”, per la Royal Navy. Ma, sul frontespizio del libro, i versi: “In quest’ultimo dei luoghi di ritrovo/ Brancoliamo insieme/ Ed insieme di parlare evitiamo / Riuniti su questa spiaggia del tumido fiume…”, fa riferimento alla poesia di Eliot, The Hollow Men (Gli uomini vuoti), da cui sono estratti, concludendosi poi mestamente: “Questo è il modo in cui il mondo finisce / Non con un botto ma un lamento.”. 

Le nuvole rapaci di Whitman

L’altro film ispirato, nel 2000, dal racconto di Nevil Shute e diretto da Russell Mulcahy, richiamava invece una poesia di Walt Whitman, “On the Beach at Night“, che sembra essere più attinente alla trama letteraria del primo, pur mancando in quel titolo il riferimento notturno, presente nell’immagine dell’inventore del moderno verso libero, che descrive come un padre conforti la sua figlioletta spaventata da un cupo banco di nubi in avvicinamento, il quale a poco a poco va cancellando le luminose stelle della sera: “Le nuvole rapaci a lungo vittoriose non saranno,/ Non possiederanno a lungo il cielo, divorano le stelle solo in apparenza,/ Giove emergerà, abbi pazienza, guarda ancora un’altra notte, ritorneranno le Pleiadi,/ Sono immortali, tutte quelle stelle argentate e dorate risplenderanno di nuovo …”. Quasi un timido spiraglio a una cauta speranza, e non il “lamento” di Eliot.

“Operation Able Archer”

Nel 1983, ventuno anni dopo la crisi di Cuba, si sfiorò un’altra volta il rischio d’una guerra nucleare. Gli Usa e i loro alleati della Nato condussero una serie di esercitazioni militari, denominate “Operation Able Archer“, talmente realistiche da convincere i sovietici della possibilità d’un attacco sul loro territorio. Due mesi prima, nel settembre di quello stesso anno, scambiandolo per un velivolo spia, i russi avevano abbattuto un Boeing 747 delle linee aeree coreane, uccidendone tutti i passeggeri a bordo. E poco prima, il presidente Ronald Reagan, nell’annunciare i suoi piani di “Guerre Stellari” per la realizzazione d’un sistema di difesa strategico, aveva pronunciato il fatidico discorso nel quale definiva senza mezzi termini l’Unione Sovietica “l’impero del male”. La convinzione occidentale rasentava l’esaltazione della missione divina sul tipo crociata contro gli infedeli!

“Offret/Sacrificatio”

L’apocalisse atomica, fonte d’ispirazione di tanta (ma non tanto) fanta-sociologia, venne coniugata da Andrei Tarkovsky, nella narrativa cinematografica del suo testamento spirituale dal titolo: “Offret/Sacrificatio” (1986), con profondi richiami ideologici e religiosi, sia cristiani che pagani, dall’esemplare intensità drammatica, sino ad assumere la formula della preghiera filmica o d’una parabola mistica sull’assenza di spiritualità nella nostra cultura occidentale, fondata sull’avere più che sull’essere.

L’apologo metafisico sulla paura e la disperazione rimossa della catastrofe nucleare riprende la variazione sul tema del “sacrificio d’Abramo” presente in Fail-Safe di ventidue anni prima, nel senso che qui (e ora) il figlioletto viene lasciato sdraiato sotto un albero spoglio e sostituito dal “Padre”, nelle veci di New York. Eppure, non si tratta proprio soltanto dell’offerta di sé, e neppure esattamente d’una semplice allegoria dell’espiazione, proprio per via dell’intrusione di quella dialettica con certe idee pagane, qui contrapposte in sensibilità equivalenti, mentre in “Andrei Rublev” (1966) veniva risolta col diniego della seduzione stregonesca, per l’assoluta incompatibilità con l’amore cristiano. 

“Seconda” guerra fredda

Sei anni dopo la caduta del muro di Berlino (9 novembre 1989) e quattro dalla successiva dissoluzione dell’Unione Sovietica (26 dicembre 1991) e l’«apparente» fine della cosiddetta (prima) “Guerra Fredda”, un’altra tensione avrebbe avuto luogo il 25 gennaio 1995. Un gruppo di scienziati norvegesi e statunitensi lanciò un razzo Black Brant al largo della costa nord-occidentale della Norvegia allo scopo di studiare l’aurora boreale dell’arcipelago delle Svalbard. Per la struttura e la velocità molto simili a quelle dei missili nucleari lanciati da sottomarini, l’esercito russo stava inizialmente fraintendendo la traiettoria che poteva rappresentare per loro una minaccia. Fortunatamente, però, pochi minuti dopo, come previsto,  il razzo cadde vicino all’isola di Spitsbergen.

«Gentlemen, you can’t fight in here. This is the War Room!» (Signori, non potete combattere qui! Questa è la sala della guerra!), rimbrotta i suoi generali il Presidente Muffley (Peter Sellers), e poi rivolto al suo omologo rivale: «Dispiace anche a me, Dmitrij. Mi spiace molto. Va bene, dispiace più a te che a me, però spiace anche a me. A me dispiace quanto a te, Dmitrij. Non dire che a te spiace più che a me, perché io ho il diritto di essere dispiaciuto quanto lo sei tu, né più né meno. Ci spiace ugualmente, va bene? D’accordo.». 

Probabilmente perché permeato da quella giusta dose di cinismo corrisposto dal pubblico, Il dottor Stranamore è tra le opere che più hanno influenzato l’immaginario collettivo dei nostri tempi. Erano in molti (allora come pure adesso, però!) a vivere la costante minaccia atomica quasi con rassegnazione e in modo apatico. 

Candy e Lolita

Forse l’enfatizzazione dell’inconscia natura dell’impulso a combattere e autodistruggersi, anticipando così l’imminente rivoluzione sessuale, sarebbe da attribuire almeno parzialmente all’apporto alla sceneggiatura di Terry Southern, già famoso per il suo umoristico approccio al sesso con il romanzo “Candy” del ’58. Ma anche Kubrick era reduce dalla trasposizione sullo schermo della Lolita di Nabokov, che aveva suscitato tantissimo scalpore nel ’62. 

Thinking about the Unthinkable

A ogni buon conto, per la commedia satirica in cui mette alla berlina la stupidità e la follia dei cosiddetti strateghi, il regista newyorkese non aveva affatto dimenticato dei precisi e diretti riferimenti alla realtà. S’era sicuramente ben documentato su molti libri, tra cui non poteva mancare “Thinking about the Unthinkable” (Pensando all’impensabile) di Herman Kahn; anzi, il personaggio del dr. Merkwürdigliebe (Stranamore) si riferirebbe, per certi versi, proprio a lui e non soltanto a Wernher von Braun; infatti, i tic del braccio che autonomamente scatta in aria per il saluto nazista, o della mano ribelle che cerca di strangolare il suo proprietario, originariamente, non facevano parte del copione, ma erano esclusive e geniali improvvisazioni di Sellers che istrionescamente interpretava anche il protagonista, oltre ai personaggi del giovane Mandrake e del presidente Muffley.

La deterrenza

Considerato uno dei padri della “pianificazione degli scenari”, Kahn, nel contemplare “l’impensabile” – vale a dire, la guerra nucleare -, sviluppò numerose metodologie, mediante l’applicazione della teoria dei giochi e quella dei sistemi applicate all’economia e alla strategia militare, arrivando a sostenere, in “The Nature and Feasibility of War and Deterrence“(La natura e la fattibilità della guerra e della deterrenza,1960), la maggiore deterrenza d’un avversario che fosse convinto della capacità di secondo attacco, quale misura di rappresaglia devastante da parte dell’aggredito. 

La Scala di Kahn

Nel 1965, lo studioso e futurologo americano avrebbe elaborato la “Scala” che porta il suo nome, improntata su ben 44 gradini che costituirebbero lo schema base della teoria strategica dell’«escalation» nucleare: dalla sub–crisi o crisi apparente (che va dagli iniziali segni d’una prima “evidenza” alle immediate manovre politiche, diplomatiche ed economiche, per sfociare in aperte, solenni e formali “dichiarazioni”), passando per le crisi tradizionali (dalle posizioni irrigidite e confronto di volontà, dimostrazioni di forza, significativa mobilitazione, provocazioni, ritorsioni e ”molestie” di giurisprudenza internazionale, poi intensificate con azioni di disturbo, e “molestie violente”, seguite da confronti militari e drammatici scontri), crisi accentuate (provocatoria rottura delle relazioni diplomatiche, stato di grande allarme, grandi azioni militari convenzionali di consueta belligeranza, escalation complessa e di grandi dimensioni, convenzionale dichiarazione di guerra limitata, “quasi” guerra totale, a malapena nucleare, “ultimatum” nucleari, evacuazioni limitate delle popolazioni con sfollamento al 20%, eclatante dimostrazione di forza molto minacciosa, attacco di controffensiva giustificabile e contenuto, embargo mondiale o blocco “pacifico”), crisi di intensità eccezionale (con guerra nucleare localizzata, limitata e dimostrativa – e siamo al 21° gradino -, dichiarazione formale di guerra nucleare limitata, limitazione della guerra nucleare all’ambito militare, insolite, provocatorie e significative contromisure insidiose, grande evacuazione con sfollamento della popolazione al 70% – e siamo al 25° gradino), attacchi centrali dimostrativi (contro zone interne, contro sistemi militari, esemplari contro proprietà e impianti industriali, esemplari contro le popolazioni, sfollamento generale, con evacuazione completata al 95%, e reciproche rappresaglie da ambo le parti – 31° gradino), tralasciando i sette scalini di conflitto centrale militare (a partire dalla dichiarazione formale di guerra totale) e i sei del conflitto contro le popolazioni, fino alla guerra spasmodica, ormai priva di controllo e di senso. 

Il momento “strategico”

Ognuno di questi «gradini» di Kahn corrisponde a un ben determinato momento “strategico” in una  dialettica fra le potenze, lungo una scala che dalla «guerra fredda» ha ormai sconfinato nel conflitto bellico mondiale, con incondizionato ricorso a tutti i mezzi a disposizione. Ma per superare la cosiddetta «soglia nucleare» basterebbe giungere alla situazione prevista fra il numero 20 e il 21.

L’esigenza tattica

Sfortunatamente, forse, la “Scala di Kahn” non è più troppo attendibile, visto che risale a 57 anni fa e nel frattempo sono presumibilmente intervenute tante altre variabili, magari non più strategiche ma “tattiche”. Da non trascurare il pericolo di terrorismo nucleare o il più alto numero di paesi dotati di armamentari idonei e vettori per trasportali che da allora si sono aggiunti alle “potenze nucleari” tradizionali, o l’assoluta novità dei missili ipersonici capaci d’una velocità di crociera superiore alla velocità del suono e  praticamente non intercettabili. 

Con quell’angoscioso progressivo appesantimento delle crisi, la “Scala” resta comunque un impressionante tentativo di dispiegare la gradualità dei possibili accadimenti, che passo dopo passo s’avvia verso una strada a senso unico, senza ritorno.

L’espressione “guerra fredda” sarebbe stata usata per la primissima volta nel XIV secolo dal principe Juan Manuel di Spagna per designare l’interminabile conflitto che allora contrapponeva i re cattolici ai Mori dell’Andalusia. L’autore di “1984”, scritto nel ’48 (da cui la datazione invertita nel titolo del romanzo), l’avrebbe ripresa con particolare successo più propriamente nel 1945.

Una temperatura relativa 

Ma se la guerra è rimasta, per così dire. letteralmente “fredda” tra Mosca e Washington, è diventata spesso “calda” in altre parti del pianeta: a cominciare da Indocina, Corea, Vietnam, Cambogia … Apparentemente, e solo “apparentemente”, questo periodo sarebbe durato fino alla caduta dell’URSS, con molti punti “bollenti”, come il blocco di Berlino, la costruzione del Muro, la crisi missilistica a Cuba, la repressione in Ungheria o in Cecoslovacchia, i colpi di stato in Grecia o in Indonesia, per non parlare dell’Afghanistan dove contro Mosca gli Stati Uniti hanno scatenato la furia dei fondamentalisti islamici, il cui terrorismo si sono poi visti costretti a combattere senza averne ancora avuto ragione. 

Un reale tri-polarismo

Le teorie riguardanti la politica, l’economia o la sicurezza, in auge tempo addietro, continuano ancora a influenzare molte persone nella loro Weltanschauung manichea. Del resto, la guerra fredda “storica” s’è manifestata indistintamente su tutti i fronti, da quello ideologico e scientifico (si ricordi l’inutile corsa per la conquista dello spazio) a quello culturale e sportivo (le non sempre leali competizioni ai Giochi Olimpici). 

Oggi, invece, l’opposizione Est-Ovest non è una semplice questione tra Oriente e Occidente, tra Russia e Stati Uniti, – e forse sarebbe meglio parlare d’una visione bipolare che s’è andata moltiplicando almeno in tripolare, prendendo in considerazione anche quelli che un tempo venivano definiti come “paesi non allineati”, – ed è tutt’altro che ideologica, visto che il liberalismo del mercato economico trionfa ovunque, e probabilmente molto più proprio dove non ce lo aspetteremmo. Ne è una riprova, la globalità dell’attuale crisi che penalizza allo stesso modo la valuta russa e la borsa di Mosca così come le borse occidentali, salvo quelle degli speculatori ben mascherati da eroici patrioti o da spregiudicati diplomatici che si comportano da elefanti in un negozio di cristalleria. 

Il ritorno del vocabolario guerrafondaio degli anni Cinquanta e Sessanta sta ora facendo un grosso favore a chi quel vocabolario lo ha confucianamente abbandonato, insieme con gli scontri inutili, per adottare una più agevole transizione nelle relazioni internazionali in grado di assicurare un, anche se indebito e immorale, profitto. 

 

Giuseppe M. S. Ierace


HIROSHIMA E NAGASAKI APPARTENGONO PIÙ ALLA TERZA GUERRA MONDIALE CHE ALLA SECONDA