Da “L’Odio” di Kassovitz a “Athena” di Gavras: il cinema delle banlieues francesi

Nell’ultima manciata di secondi de L’Odio, l’irripetibile cult in bianco e nero diretto da un giovane parigino di nome Matthieu Kassovitz (1995, Miglior Regia al Festival di Cannes), il personaggio interpretato dal quasi esordiente Vincent Cassel (Vinz) viene ucciso “accidentalmente” dalla pistola di un neonazista, l’atto finale di un viaggio al termine della notte che, per certi versi, non poteva chiudersi in nessun altro modo. Per tutto il film infatti lo spettatore respira le tossine della tragedia imminente, sebbene il tono scanzonato (quasi ironico) di molte sequenze riescano ad alleggerirne la torbida atmosfera. Merito non solo della scrittura iperrealista dei protagonisti, la cui rabbia giovane e il vivere senza-meta (non proprio per scelta) si riflette nell’architettura in rovina dei quartieri (les cités) della periferia (la banlieue) parigina, ma anche di quella complessa riflessione sociale che appare dietro ogni scatto d’ira, parola urlata e offensiva o inquadratura sregolata (dal colore contrastato in stile noir alla macchina da presa mai stabilizzata, evoluzione dei dettami della Nouvelle Vague); impossibile non citare quel breve frammento in cui una giornalista cerca di intervistare i protagonisti a distanza di sicurezza o quello in cui i compagni notturni di Vinz, Hubert (Hubert Koundé) e Saïd (Saïd Taghmaoui), descrivono l’elettore medio dell’ultra-conservatore Jean-Marie Le Pen. E in maniera cinica e ciclica la fine del film coincide con un inizio extra-diegetico (la morte di un amico dei protagonisti), lasciando allo spettatore un grande sconforto misto alla sensazione che qualcosa di peggio potrebbe ancora accadere. Perciò quello che ha compiuto Matthieu Kassovitz è un miracolo cinematografico, eletto fin da subito a una delle opere d’arte più rappresentative degli anni Novanta (da accoppiare per intenti all’inglesissimo Trainspotting di Danny Boyle, uscito nei cinema l’anno seguente). 

Still da “L’odio” (1995) Regia: Matthieu Kassovitz

Ancora una volta a fare la differenza è stato lo sguardo inedito, la capacità di captare, condizionare e plasmare lo spirito del tempo, sebbene poi alla base ci siano le stesse tematiche (il gioco al massacro tra reietti, pedine di una società che svicola i problemi attraverso la violenza fisica e non). Per molto tempo infatti ci si è chiesto quali potessero essere i registi o le registe francesi in grado di raccogliere la pesante e scottante eredità de L’Odio. Nel corso degli anni, proprio grazie al film apripista di Kassovitz, le banlieues parigine (una vasta area composta da tre dipartimenti dell’Île-de-France) sono entrate all’interno del discorso cinematografico francese, diventando così uno degli elementi fondanti di una specie di genere a sé stante (come il western o il noir). Da quel paesaggio così caratteristico e denso di significato, con risultati comunque differenti in base alle esigenze e ai punti di vista, ci sono passati autori come Abdel Kechice (La schivata, 2003), Laurent Cantet (La Classe, 2008), Céline Sciamma (Diamante Nero, 2014) e Rachid Hamid (La Mélodie, 2017). Ma soltanto due, entrambi seconda generazione di migranti, hanno saputo traghettare nella complessità dell’oggi la riflessione di Kassovitz, il regista quarantenne di origine maliana Ladj Ly e Romain Gavras, figlio del cineasta greco (naturalizzato francese) Costa-Gavras: il primo con uno degli esordi più dirompenti e importanti del cinema contemporaneo francese, I Miserabili del 2019 (premio della giuria al Festival di Cannes), e l’altro con una lunga e controversa carriera nel mondo dei videoclip (dal 2001) e con il suo terzo e ultimo lungometraggio, il film Netflix Athena del 2022 (scritto dallo stesso Ly insieme a Gavras e Elias Belkeddar, in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia).

Still dal videoclip “Stress” dei Justice (2008). Regia: Romain Gavras

Nel violento – al tempo criticato – videoclip di Stress del duo electro francese Justice (dall’album di debutto Cross, 2007), Romain Gavras segue un gruppo di ragazzi neri della banlieue parigina mentre terrorizzano il quartiere (auto in fiamme, negozi devastati, passanti molestati o picchiati), come se fossero moderni drughi senza legge (da Arancia Meccanica di Stanley Kubrick, 1972). Innegabile che la radice sia L’Odio di Kassovitz, nonostante venga utilizzato un linguaggio decisamente più immersivo e “anarchico” (nel racconto per quadri, nell’estetica irregolare, nella musica acidissima dei Justice); al tempo venne infatti accusato di razzismo, di stigmatizzare la già problematica vita della periferia. Successivamente la clip di Stress – un vero e proprio spartiacque – ha permesso al giovane cineasta di spingere le proprie idee verso territori più complessi, scioccanti e internazionali, come dimostra il video (censurato) di Born Free della rapper londinese M.I.A. (dal suo terzo album Maya, 2010). La regia dai tratti videoludici di Gavras viene impiegata per una metafora socio-politica in cui tutte le persone dai capelli rossi vengono deportate in un deserto-ghetto per essere giustiziate (in primissimo piano e senza censure); in linea con il cinema di guerra degli anni Duemila (si pensi alla “kamikaze” Kathryn Bigelow), il videoclip ha avuto uno sviluppo nel primo lungometraggio di finzione di Gavras, Our Day Will Come (2010), in cui però si perde la carica eversiva dell’originale (protagonista un istrionico Vincent Cassel, nel contesto dell’arida periferia industriale di Dunkerque). Poi è arrivato l’affascinante clip di No Church in the Wild di Jay-Z e Kanye West feat. Frank Ocean (dall’album collaborativo Watch the Throne, 2012): qui, ispirato dalle pungenti parole del brano e dal suo sound tenebroso, Gavras dà libero sfogo alla sua rabbia giovane e mette in scena una trionfante (ma crudele) epica della guerriglia urbana. Nel contesto di una Praga dai monumenti neoclassici (si riconosce subito la dea greca della guerra Atena), quello che colpisce è la sapiente gestione di un numero spropositato di comparse, divise tra giovani in rivolta e polizia armata, in un turbinio caotico di momenti esplosivi, violenti, fisici. Tecnicamente ineccepibile, tra slow-motion iper-estetizzanti (fotografia notturna pazzesca, capace di animare quelli che sembrano dei tableaux-vivants) e un montaggio al cardiopalma, No Church in the Wild ha consacrato definitivamente lo stile di Gavras, il quale non poteva assolutamente lasciare la tematica della guerriglia così “abbozzata”. 

Still dal videoclip “No church in the wild” (2012) di Jay-Z, Kanye West & Frank Ocean. Regia: Romain Gavras

L’incontro con Ladj Ly, reduce dal successo de I Miserabili, ha portato ad Athena, che unisce l’estetica incendiaria di No Church in the Wild con le peculiarità socio-politiche del cinema delle banlieues. I due film sopracitati sono speculari, complementari, anche se l’opera prima di Ly sia più centrata e complessa grazie ai suoi molteplici livelli di lettura. Strutturato con un vertiginoso climax, il cui punto più alto è il compimento di una tragedia già annunciata nelle retrovie (come ne L’Odio), I Miserabili segue la giornata lavorativa di un trio di poliziotti (uno appena trasferito, uno razzista, uno nero) inseriti all’interno di un microcosmo variegatissimo, governato da regole “alternative” rispetto a quelle presenti nel resto della Francia (il comune di Montfermeil, dove nell’Ottocento Victor Hugo scrisse e ambientò il suo capolavoro Les Misérables). Il cineasta francese mescola diverse modalità di ripresa (uno dei pochi ad utilizzare il drone in maniera intelligente, ovvero a fini narrativi e non solo estetici) così come mette in comunicazione i vari gruppi etnici che abitano il quartiere e che vivono uno stato di perenne tensione. A farne le spese, al solito, sono i bambini (la terza generazione dei migranti), novelli Gavroche destinati a fare propria la violenza dentro cui sono cresciuti: durante un inseguimento, uno dei piccoli protagonisti viene ferito dalla flashball del poliziotto nero, il quale poi, con la complicità dei compagni, cerca di mascherare l’accaduto per non avere ripercussioni professionali; solo con la guerra i ragazzi porranno fine alla noncurante diplomazia degli adulti. «Non vi sono né cattive erbe né cattivi uomini: vi sono soltanto cattivi coltivatori» recita una citazione di Victor Hugo alla fine del film. E Athena, caratterizzato da un pessimismo incurabile, inizia laddove I Miserabili si conclude, ovvero raccontando il superamento del punto di non ritorno, il momento in cui l’azione si sostituisce irrimediabilmente al dialogo.

Still da “I Miserabili” (2019). Regia: Ladj Ly

«Dietro ogni guerra si nasconde infatti una manipolazione, una bugia originale; la storia si ripete, dalla guerra di Troia ai conflitti contemporanei. Ci sono sempre forze nell’ombra che nutrono l’ostilità: sanno che quando il dolore intimo è troppo grande, la violenza acceca il pensiero, e quando la nazione è fragile, è facile spingerla nel baratro» recitano così le parole di Romain Gavras, trascritte nella nota di presentazione di Athena per la Mostra del Cinema di Venezia. Ne L’Odio c’è una bugia dettata dall’ignoranza (il diverso come nemico da abbattere per risolvere un problema che ha ben altre radici), mentre ne I Miserabili la bugia nasconde l’errore prevedibile ed evitabile (la responsabilità di chi deve difendere la legge anche in un contesto bellicoso). Athena parte dalla descrizione frammentaria di un video diventato virale sui social, un video in cui un bambino di origini arabe viene ucciso da un gruppo di poliziotti. Il fatto scatena la rabbia del fratello Karim (Sami Slimane), che organizza una sommossa di proporzioni gigantesche contro la polizia; la cosiddetta goccia che fa traboccare il vaso, in grado di smuovere la coscienza e la rabbia di un’intera comunità stanca di non essere ascoltata/vista, di essere relegata margini della società. L’altro fratello, Abdel (Dali Benssalah), è invece un militare che cerca invano di impedire la rivoluzione perchè c’è la possibilità che gli assassini siano degli estremisti di destra mascherati. Così il quartiere fittizio di Athena (nella realtà, un quartiere da demolire a Évry-Courcouronnes nell’Île-de-France) si trasforma in una zona di guerra, con i palazzi popolari usati brillantemente come fortino e/o barricate (anche qui è chiaro il riferimento ai Miserabili di Hugo); vigile sulla situazione e sull’affannarsi di una famiglia devastata, lo spettro della dea della guerra Atena (come in No Church in the wild) e dei grandi drammaturghi classici che, rimanendo negli argini dell’unità aristoteliche di tempo e di spazio, hanno saputo inscenare la complessità della condizione umana (si potrebbe pensare che con il mondo classico Gavras si voglia ancorare alle proprie origini).

Still da “Athena” (2022). Regia: Romain Gavras

Ancor prima del titolo, Athena si apre con un lungo piano-sequenza impressionante in cui accade letteralmente di tutto e ad accompagnarlo è una straordinaria colonna sonora dai toni epici che fa uso di cori in greco moderno (a firmarla è il DJ francese GENER8ION). In questo modo, senza troppi rigiri di parole, Romain Gavras decreta un prima o un dopo per quanto riguarda il genere cinematografico di riferimento. Tale “estetica dell’accumulo” si ripete nel corso di tutto il film, riproponendo e ampliando quello che abbiamo visto nel videoclip per Jay-Z, Kanye West e Frank Ocean: fuochi d’artificio, spari, urla, sangue, flashball, motorini, cavalli, bandiere francesi, manganelli, caschi, scudi, oggetti contundenti, lacrime, sassi, prede, predatori, esseri umani. L’azione, rallentata e/o velocizzata, occupa l’intero spazio del dramma e riduce la parola al minimo essenziale senza che l’intreccio ne subisca i contraccolpi (qui si vede la penna già esperta di Ladj Ly). La perdita dell’aspetto più riflessivo (scritto, parlato, intellettuale) dell’atto di denuncia è uno dei sintomi più evidenti di certo cinema contemporaneo mainstream, votato invece all’estremismo visivo, all’intrattenimento ipertrofico, così da potenziare al massimo l’esperienza spettatoriale, magari grazie anche alla contaminazione con altri linguaggi come il videoclip e il videogioco. Ma come dimostra il caso di Athena (la fotografia di Matias Boucard parla da sola), ciò non vuol dire che la denuncia perda di effetto, anzi, si allinea ad un gusto che appartiene all’oggi, ai nuovi occhi degli spettatori. Da non dimenticare che il film è una produzione Netflix, quindi pensata per il grande pubblico dello streaming. Infatti di pari passo ai raffinati eccessi stilistici di Gavras viaggia l’inasprimento del messaggio, sempre più crudo e respingente, l’effetto collaterale di decenni di politica fallimentare in termini di educazione ed integrazione. È impossibile non cogliere i riferimenti impliciti alla nuova ondata di opinioni “reazionarie” che hanno invaso l’Europa (non sarebbe stato strano sentire pronunciare il nome di Marine Le Pen, figlia di Jean-Marie, o il suo elettore-tipo) e questo riesce comunque a giustificare un finale troppo retorico che mina l’affascinante ambiguità posta alla base dello scontro tra i fratelli, tra le diverse fazioni in campo. 

Still da “Athena” (2022). Regia: Romain Gavras

Dopo opere così sfaccettate come I Miserabili e Athena sembrano davvero lontani i tempi in cui Vincent Cassel imitava allo specchio il Robert De Niro di Taxi Driver (Martin Scorsese, 1976), in una delle scene più iconiche de L’Odio. Forse si possono considerare i tre amici del film di Matthieu Kassovitz come i padri ideali/spirituali di tutti i giovani che compaiono nelle opere di Ladj Ly e Romain Gavras, giovani costretti a portare alle estreme conseguenze la lezione della generazione che li precede (anch’essa vittima di una schema più grande). Ma è chiaro che entrambi i registi sopracitati spettacolarizzino la violenza non per suggerirla come soluzione ma, in quanto metafora (o presagio funesto), per sottolinearne ancora una volta la completa inutilità. Forse è questa la più grande tragedia dell’uomo, l’essere destinato a ripetere gli stessi errori, ingabbiato nei propri istinti autodistruttivi. E a rimetterci saranno sempre coloro che un giorno erediteranno le macerie causate dal nostro passaggio.

Vincent Cassel. Still da “L’odio” (1995) Regia: Matthieu Kassovitz (1995).

Da “L’Odio” di Kassovitz a “Athena” di Gavras: il cinema delle banlieues francesi