L’Africa e l’America Latina dimenticate dall’Occidente impegnato in una guerra pericolosa e dannosa. I Sud aspettano giustizia (L. Rosati)

La guerra in Ucraina ha rilanciato tra i popoli e le Nazioni l’esigenza di un nuovo ordine mondiale pluricentrico che si affranchi progressivamente dalla tendenza unipolare dell’asse occidentale egemonizzato dagli Usa.

L’espansionismo illimitato della Nato, l’Organizzazione del Trattato Nord Atlantico (North Atlantic Treaty Organization) firmato dai paesi aderenti nel 1949 in opposozione a quelli dell’ « area sovietica», poi riunitisi nel patto di Varsavia a maggio 1955, è stato riconosciuto da un gran numero di paesi, situati per lo più nell’emisfero meridionale, come la causa principale del conflitto.

I prodromi dell’ « operazione speciale » di Mosca vanno infatti ricercati a partire dal 2014, anno del colpo di Stato filo-europeo in Ucraina. La volontà d’annessione di questo paese nell’area d’influenza euro-atlantica e d’isolamento del Cremlino, con delle consequenze d’ordine militare e della sicurezza che Putin non poteva ignorare, hanno fatto compiere al mondo un passo indietro di trent’anni con la riattivazione di un confronto Est/Ovest ormai desueto ed inutile, oltre che interno ad una logica imperiale strettamente « settentrionale ».

Perché è un dato di fatto che le ostilità in corso nell’Europa dell’Est oppongono la Russia non al regime di Kiev, ma ai paesi della Nato che lo armano sostenendolo anche sul piano della logistica e dell’intelligence. Un contesto in cui gli Ucraini, civili e militari, celebrati nei media mainstream a mezzo di un’ipocrita retorica della resistenza, sono utilizzati come carne da cannone.

Di fronte a queste evidenze, i paesi del Sud nella loro stragrande maggioranza hanno rifiutato la scelta campista. Quelli che nelle crisi precedenti, come nei casi delle invasioni dell’Irak e della Libia, si schieravano a sostegno del blocco dell’Ovest sotto la direzione dei Permanent Three (Usa, Royaume-Uni, France, P3) del Consiglio di Sicurezza della Nazioni Unite (CSNU), hanno scelto il non-allineamento durante le votazioni dell’ONU.

A parte le Siria, la Bielorussia, l’Eritrea e la Corea del Nord, che si son rifiutate di condannare « l’aggressione della Russia », numerosi paesi dell’Africa, dell’America del Sud e dell’Asia -riedizione questa di vecchie convergenze che non ha mancato di evocare il ricordo della Tricontinentale, la Conferenza di solidarietà dei popoli del Sud negli anni ‘60- si sono astenuti o non hanno partecipato al voto.

Se i casi dell’India e dell’Arabia Saudita, alleati storici degli Stati-Uniti, sono emblematici di questa ricomposizione geo-politica sfavorevole al blocco atlantico, la Cina -di fronte alle posizioni guerrafondaie degli Usa e dell’Unione europea (UE)- ha fatto immediatamente sapere di essere favorevole all’apertura di un ciclo di negoziati per arrestare le operazioni militari. Mentre la Turchia, pertanto paese membro della NATO, e l’Iran, paese coerentemente anti-americano a partire dall’avvento della Rivoluzione islamica (1979), si sono opposti alle sanzioni contro la Russia.

Cuba e il Venezuela, le cui diplomazie hanno lavorato per limitare le adesioni al campo NATO-centrico durante la crisi, si sono ritrovate affiancate dal Brasile, la cui posizione è comunque spiegabile in quanto Stato facente parte dell’associazione del BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Africa del Sud), insieme di paesi che è creditato raggiungere, per il 2025, il 40% del Prodotto interno lordo (PIB) su scala modiale.

In questa area del dissenso contraria alle forze imperialiste animate dalla prospettiva di una sconfitta di Putin sul piano militare, fors’anche dal folle sogno di uno smembramento della Russia, il Vaticano ha svolto un ruolo importante con una politica di pace. Papa Bergoglio ha sottolineato nei suoi numerosi interventi, come sia impossibile fermare una guerra senza averne bene individuate le cause. Cioè denunciando, e senza mezzi termini, che quella in Ucraina è stata provocata dall’ « abbaiare » della NATO alle porte della Russia.

Il Summit di Samarcanda

Rilevante quanto il BRICS, l’Organizzazione di cooperazione di Shangai (OCS), che riunisce più d’un quarto dell’umanità (la Cina, la Russia, l’India, il Pakistan e l’Iran ne fanno, tra gli altri paesi, parte) ha colto l’occasione del summit di Samarcanda -il 15 settembre in Ousbékistan, preceduto da manovre militari cino-russe a inizio settembre, a cui anche l’India ha partecipate- per riaffermare la visione di un nuovo governo globale « per iniettare stabilità ed energia positiva in un mondo sconvolto dal chaos », secondo i termini del leader cinese Xi Jinping.

Significativa è stata anche la scelta di molti paesi africani, solitamente « controllati » da Parigi, che si sono astenuti dal condannare il Cremlino e non hanno perorato l’applicazione delle sanzioni nei confronti di Mosca. Un atteggiamento inedito che va sottolineato perché conforta la prospettiva di una nuova partenza di un continente politicamente in ritardo rispetto alle esigenze delle sua popolazioni. Dal Sahel alla Repubblica centrafricana queste domandano uno sganciamento non più dilazionabile dalle pressioni delle potenze occidentali predatrici e le cui ingerenze son terribilmente costose in termini di vite umane.

Questa situazione del tutto perticolare, sviluppatasi a partire da una guerra unilateralmente denunciata in Occidente come un’aggressione da parte del paese forte del vecchio Impero sovietico, produce nuove aggregazioni e una dinamica di scambi bi e pluri laterali sui piani diplomatico, commerciale, ecologico e militare. Un processo che sta rivitalizzando l’idea del Multicentrismo come principio di relazioni internazionali più eqilibrate e svincolate dal dominio di un blocco occidentale peraltro largamente minoritario.

Le elite di questo fronte imperialista pretendono, dalla fine della seconda Guerra Mondiale, e più risolutamente dopo la caduta del Muro di Berlino e la scomparsa dell’Unione Sovietica, d’imporsi alla guida del mondo in quanto portatrici di una missione civilizzatrice, basata sui « valori superiori » della « democrazia », del « progresso » e dei « diritti dell’uomo ». Valori da « esportare », se necessario, con la forza. Il tutto nel quadro di un neo-liberalismo senza concessioni, fonte di squilibri crescenti ai livelli sociale -cioè interno ai singoli paesi-, internazionale ed ecologico.

Di fronte alla crisi di questo progetto di dominio planetario, crisi non più latente e che appare irreversibile, l’Amministrazione USA di Biden si distingue giocando le carte della provocazione. Come quando fomenta le smanie secessioniste di Taiwan contro la Cina o fornendo armi sempre più sofisticate al capo di Stato ucraino Zelensky. Mentre i suoi tenori nei media, pur riconoscendo un isolamento mai cosi’ evidente dell’Occidente (« L’altro mondo s’organizza (senza di noi) », intitola il quotidiano indipendente francese L’Opinion commentando la riunione di Samarcanda), accusano gli attori dell’area pluri-polare di perseguire una « strategia di disordine mondiale » e di voler « deoccidentalizzare il multicentrismo ».

Affermazione perlomeno audace e d’inversione della realtà se i mentori della comunicazione deviante considerano « ordine » quello ha devastato in pochi anni tutto il Medio-Oriente e la Libia, con esiti disastrosi per la stabilità dei paesi del Sahel e la sicurezza delle sue popolazioni ; e « multicentrismo » le decisioni unilaterali che hanno portato alle aggressioni dell’Irak e della Siria e all’assassinio di Gheddafi, quando i paesi della NATO interpretarono alla bersagliera delle risoluzioni delle NU peraltro imposte col sotterfugio e l’acquisto delle coscienze…

Non c’è alcun disegno d’egemonia planetaria invece, al centro del movimento del Multicentrismo, che va definendosi non come un blocco in fieri da opporre al blocco atlantico, ma in quanto aggregato eterogeneo in cui son presenti sistemi di governo e paesi con rapporti sociali e produttivi assai diversificati. Le forze del Sud vi son chiamate a giocare un ruolo da protagoniste, a condizione che quelle più progressiste facciano prova di discernimento e maturità.

Il Multicentrismo non è « Il sol dell’avvenire » e molti paesi tra quelli che concorrono al suo avvento non sono noti per governare secondo i principi della giustizia sociale e del rispetto delle libertà. Basti pensare al Brasile e alla Turchia, ed anche ad altri. Ma resta un passaggio indispensabile per uscire dal dominio unipolare che instaura la legge del più forte nelle relazioni internazionali e provoca effetti di predazione e di distruzione su scala allargata nei paesi sottoposti al suo imperio. Perché non riconoscere allora che, come si diceva negli anni ‘60 e ‘70, la contraddizione tra imperialismo e popoli oppressi si manifesta nell’attuale versione che oppone il blocco unipolare euro-atlantico ai paesi usciti dalla colonizzazione, ma sottoposti ad un nuovo e dissimulato processo di riconquista o di dominazione ?

In questo scenario, in cui i paesi del Sud sono i vettori potenziali di un movimento di riscatto storico dopo secoli di assoggettamento da cui si stanno appena liberando, genti e dirigenti del Gran Meridione hanno l’occasione di farsi motore di una nuova epoca di Rinascimento politico, sociale, economico e culturale.

Aspetto, quest’ultimo della cultura, d’importanza essenziale. La costruzione del logos della volontà di potenza del Nord è infatti imperniato su un’idea suprematista sulle popolazioni meridionali. Inizialmente considerate « primitive », poi progressivamente emancipate dalla barbarie ma supposte inferiori nel loro produrre sotto-culture prive delle capacità dello sviluppo indistriale e di un’umanità più avanzata.

A questi popoli, nazioni, etnie e comunità è da sempre imposto un ruolo subalterno nel concerto del governo mondiale. Negate di civiltà, esse hanno per solo destino di sottomettersi alla « Civiltà » unica ed esclusiva, quella dell’Occidente, dei paesi « ricchi » del Nord.

I due Mondi

Ma le cose non stanno cosi’. La Storia non è quella che è stata scritta nell’Occidente capitalistico dalle classi dominanti nel Nord. Non è neppure quella che le stesse hanno tramandato lungo i secoli per giustificare le imprese di sterminio con cui hanno accompagnato il dispiegarsi della loro potenza.

A partire dagli anni ‘50, una serie di studi e ricerche sul piano storiografico, linguistico ed archeologico hanno smontato il dogma suprematista della civiltà occidentale e rivelato, benché ad un pubblico ristretto, l’importanza della civiltà meridionali. Ne hanno messo in evidenza non soltanto l’anteriorità, ma anche i lineamenti principali che le differenziano da quelli costitutivi dei processi di civilizzazione nel mondo settentrionale. E che sono sicuramente alla base della contraddizione moderna Nord-Sud, come della sua possibile soluzione.

Valga come esempio per tutti quello del riconoscimento del carattere negro-africano della civiltà dell’Egitto antico almeno fino al VI secolo avanti Cristo (AC), sui cui un contributo decisivo è stato apportato dai lavori del professore senegalese Cheikh Anta Diop (1923-1986), eminente scienziato, politologo e antropologo.

Per queste ragioni, nel nostro precedente intervento su queste pagine (07/09/22, abbiamo affrontato una tematica inerente alla « Questione culturale », quella che segna, più che la differenza, lo « scarto di civiltà » tra il Nord e il Sud del pianeta Terra.

Un vero e proprio gap che si è espresso, nei periodi del suo inverarsi nelle diverse realtà storico-geografiche, nella dimensione sociale ed antropologica, con delle consequenze da assumere del manifestarsi di una netta rottura epistemologica rispetto ai criteri d’interpretazione correnti dei popoli « altri » da parte del mondo occidentale. Rottura epistemologica che, marxianamente se si vuole, è anche questa frutto di condizioni materiali d’esistenza diversificate delle comunità umane che andavano formandosi alla fine della Preistoria, soprattutto a partire dall’inizio del Terzo millennio avanti Cristo (AC). Un periodo in cui i primi agglomerati clanici erano caratterizzati dal « vivere comune » successivo all’ « orda primitiva » et precedente la fase posteriore delle grandi e medie migrazioni, degli scambi e dell’incrocio tra genti dalle origini diverse.

Il nodo della « Questione culturale » non è accessorio nel passaggio politico a un sistema di relazioni internazionali acquisito alla cooperazione e al pluralismo tra le nazioni. Proprio perché la rottura del preteso, ma reale, monopolio americano del « governo mondiale » non puo’ esulare dalla messa in discussione radicale della narrazione fabbricata per legittimare la volontà di potenza del mondo nordico e servire da giustificativo dei crimini di massa commessi in nome di un’umanità superiore : dalle Crociate alla Tratta transatlantica, dal genocidio degli Amerindiani alla Colonizzazione.

Nel testo precedentemente citato, si è voluto mettere in risalto come il « Senso del Tutto », assunzione da parte del pensiero e dell’agire del legame indissolubile della società umana col Cosmo, caratterizzi al sorgere delle prime civiltà l’area meridionale rispetto alla settentrionale, dove la natura è stata sempre e al contrario considerata come oggetto di conquista ; sottolineando come il matriarcato nello stesso periodo storico sia specifico del Sud e non fenomeno universale precedente l’avvento del patriarcato su scale planetaria, e cio’ contrariamente a quanto affermato da storici e studiosi occidentali ; infine, precisando come tutti questi elementi siano i fondamenti possibili di una sinergia politica di ricomposizione delle nazioni delle popolazioni meridionali nella prospettiva del Multicentrismo.

La nascita dell’agricoltura

Ed è proprio dal Cosmo, dalla natura in particolare, che si deve partire per individuare un’ontogenesi specifica dell’essere umano come essere terrestre, che è propria della culla meridionale e dalla notte dei tempi mancante in quella settentrionale.

L’agricoltura, passaggio civilizzatore alla domesticazione della vegetazione (dall’appropriazione alla produzione dei beni del suolo) e degli animali è nata 11 mila anni fa all’incirca e, come è generalmente ammesso, nel Sud. La « Mezzaluna fertile » ne è la culla. Compresa tra l’Africa del Nord e l’Asia Occidentale, si estendeva tra l’antica Mesopotamia e l’Egitto. Il diffondersi delle sue pratiche in Europa, a partire dal bacino mediterraneo à assai più tardo e risale al quinto millennio AC., con 4000 anni di ritardo rispetto alla sua presenza nell’insieme del continente africano.

Questi esiti in un’area estremamente vasta, relativamente rapidi se si considera lo stadio delle culture materiali precedenti, sono da attribuire alla intensità degli scambi tra le diverse popolazioni, in particolare tra l’Egitto e la Mesopotamia, favoriti peraltro da incessanti movimenti migratorî. Contatti di civiltà che gli studiosi della Prisitoria non hanno registrato a partire da questa zona in direzione dell’Europa del Nord.

Fattore determinante nella genesi della civiltà, l’avvento dell’agricoltura lo è stato anche sotto il profilo delle correnti di spiritualià, di un sostrato culturale propizio a rapporti equlibrati con l’ambiente e del ruolo dei generi.

Le datazioni riguardanti la nascita e la diffusione dell’agricoltura convalidano contenuti e conclusioni delle ricerche di Cheikh Anta Diop, a cui abbiamo fatto cenno nell’articolo precedente.

Perché è all’autore dell’Unité culturelle de l’Afrique Noire (1959, Présence Africaine, L’unità culturale dell’Africa Nera, non tradotto in italiano) che si deve la dimostrazione dell’esclusività del matriarcato africano nella fase in cui l’umanità si appresta a uscire dalla Preistoria. Le tesi fece scalpore all’epoca, tra la fine degli anni ‘50 e l’inizio del decennio successivo, quando predominava la teoria del « matriarcato universale », sostenuta da storici e antropologhi occidentali, come Bachofen e Morgan. Al contrario, l’emisfero Nord, salvo casi particolari, è stato da sempre sottoposto al regime patriarcale. Che, -secondo gli studiosi occidentali di questo periodo della storia dell’umanita oscillante tra il quarto e il primo millennio AC- era considerato « superiore » perché più propizio all’innalzamento dello spirito, rispetto a quello in cui domina la successione matrilineare, ritenuto « materialista » o addirittura evocatore delle oscurità cavernose, delle viscere della terra…

Questa opposizione tra due sistemi configura quella tra due mondi diversi nelle loro fondamenta civilizzatrici. Assumere questa realtà nella ricostruzione storica e nella visione politica è decisivo sia per individuarne le cause geografiche e antropologiche, sia per apprezzarne gli effetti sul piano della società e dell’ambiente.

La correlazione tra l’anteriorità dell’agricoltura nel Sud, il processo conseguente di sedentarietà e l’affermarsi del matriarcato come tratto fondamentale delle civiltà che si svilupparono è alla base della frattura strutturale che separerà d’ora in avanti i due mondi.

L’autore d’Antériorité des civilisations nègres : mythe ou vérité historique ? e di Civilisation ou barbarie (Anteriorità delle civiltà nere : mito o realtà storica?, Civiltà o barbarie, editi da Présence Africaine, non tradotti in italiano) ha consacrato vita e opere a queste tematiche, convinto di indicare non delle verità assolute, ma le piste di una ricerca indispensabile per uscire da una concezione erronea della storia e da un ordine internazionale squilibrato, iniquo e portatore di tragedie a ripetizione. Il valore dei suoi studi è stato solo tardivamente riconosciuto da una comunità scientifica occidentale reticente ad accettare scoperte provenienti da ricercatori del Sud, soprattutto quando queste mettono in discussione le conclusioni di specialisti « nordici »

Cheikh Anta Diop stabilisce, fatti storici alla mano, la dicotomia tra il mondo pastorale nordico e quello agrario afro-mediterraneo e dell’insieme delle società meridionali. L’uno caratterizzato dal nomadismo di popolazioni dedite all’allevamento del bestiame, l’altro dalla sedentarietà di genti che consacravano la maggior parte del loro tempo all’agricoltura.

La figura tutelare della Terra Madre

La peculiarità delle attività agricole è quella di determinare un insieme di relazioni con il regno vegetale, di rapporti di interazione, di scambio e di ricambio, la cui complessità è di per sé produttrice di cultura. Questo in opposizione al modo di vita dei nomadi a cui, nelle terre fredde, talora impervie, dell’emisfero boreale, la natura doveva apparire come una forza minacciosa da domare e piegare alle esigenze di sopravvivenza del gruppo.

« Colui che è implicato nell’agricoltura è inevitabilmente implicato nella cultura e non potrà troppo a lungo produrre ingenuamente »… senza assumere le conseguenze della sua attività sul piano dell’organizzazione sociale e del sistema dei valori del suo gruppo d’appartenenza.

La suggestiva espressione del filosofo e romanziere martinichese Edouard Glissant (1928-2011) rinvia alla serie infinita di legami -liannaj, in creolo- intercorrenti tra le comunità meridionali e la natura. Legami che assumono un carattere di spiritualità quando, attraverso varie forme celebrative, si rende omaggio nei rituali animati da canti e danze, alla figura tutelare della madre.

Nelle società del Sud, la sacralizzazione della figura femminile, luogo della vita, è legata al suo essere assimilata, nell’immaginario delle popolazioni meridionali, a quella della terra da cui ha origine la vegetazione. Ed è in particolare dovuta al ruolo svolto dal genere femminile nella scoperta dell’agricoltura, attraverso il quale la donna apportava un contributo essenziale alla vita economica del clan in quanto padrona della dimora famigliare, dispensatrice degli alimenti e depositaria della conoscenza delle piante, sia per uso terapeutico che nutritivo. Qualità che, nell’insieme, facevano della donna il pivot della sicurezza collettiva.

L’importanza dei lavori di Cheikh Anta Diop esposti nel suo L’unité culturelle de l’Afrique Noire (L’unità culturale dell’Africa Nera, sottotitolo : Domaines du patriarcat et du matriarcat dans l’Antiquité Classique, Campi del patriarcato e del matriarcato nell’Antichità Classica, edito da Présence Africaine, non tradotto in italiano) son d’importanza fondamentale perché permettono di fissare il nesso tra il ruolo del genere femminile ai primordi delle civiltà meridionali e il formarsi, presso le stesse popolazioni del Sud e intorno al secondo e primo millennio AC, di un atteggiamento di cooperazione e non di dominazione/sfruttamento con gli elementi della natura. Atteggiamento che ha permeato nel corso dei secoli, di elaborare un’architettura sociale estremamente sofisticata, una spiritualità profonda, immanente alla vita quotidiana, e una genesi dei saperi specifica, in rottura epistemologica con le modalità della conoscenza occidentale.

Il culto dei morti è un altro campo di questa differenza. Laddove nel Nord vige la cremazione -la mobilià della vita nomade non permettendo l’uso di tombe fisse- e nel Sud delle popolazioni sedentarie la pratica della sepoltura è dominante.

Ricordiamo per inciso, che spesso l’autore, rispetto allo schema prefissato : nomadismo/sedentarietà, patriarcarcato/matriarcato, cremazione/sepoltura ecc.. sottolinea l’esistenza delle eccezioni present in tutti e due i bacini, settentrionale e meridionale.

Nel corso del suo excursus, in cui domina l’intuizione -che appare folgorante in questi tempi di catastrofe climatica ed ambiantale in atto- dell’urgenza di stabilire di un rapporto diverso, più equilibrato con l’ambiente e di rispetto per le leggi della natura, Cheikh Anta Diop, pur trattando del matriarcato meridionale in generale, approfondisce specificamente quello africano senza dilungarsi su casi inerenti all’Asia e all’America del Sud.

Noi sappiamo pertanto -la storia e l’etnologia ce ne informano- che il suo assunto di un matriarcato esteso a tutta la culla meridionale dell’umanità, all’alba della civiltà e in opposizione al patriarcato nordico, è assolutamente corretto.

In realtà, il modello archetipo di una grande divinità ctonia, la madre terra, che simbolizza il principio della creazione nello stesso tempo femminile e naturale, è, sin dal periodo neolitico, dominante presso i popoli meridionali. « L’assimilazione del ruolo della Terra nella nascita della vegetazione a quello della donna nella nascita del bambino è evidente », scrive Cheikh Anta Diop (L’unité culturelle de l’Afrique Noire, opera citata, pagina 41)

La Pacha Mama, entità femminile sacralizzata è la divinità agricola della terra e della fertilità, il cui culto è ancor oggi praticato presso i popoli andini. Nella lingua degli Amerindiani Aymara e Quechua, Mama significa madre et Pacha il Cosmo, la Terra, lo spazio, il tempo… Il tutto in una straordinaria consonanza linguistica e di civiltà con i popoli dell’Africa dell’Ovest e dell’Est, presso i quali il termina Dunia significa il Mondo, ma anche la Storia, quindi il tempo !

La Pacha Mama è il corrispettivo cultuale nella struttura matriarcale delle società dell’antico Impero Inca, in cui erano venerate le competenze spirituali, artistiche, produttive e relazionali delle donne. Attualmente, nello spirito dei popoli afro-amerindiani dell’America del Sud, la Pacha Mama, che si incarica di nutrire e proteggere gli umani, assurge ad una dimensione politica nelle rivendicazioni ambientali delle popolazioni autoctone che esigono una maggiore attenzione ai principi di salvaguardia della natura rispetto alle mire di un suo sfruttamento illimitato. Perché la madre generosa, se minacciata fino nella sua essenza, puo’ diventare estremamente pericolosa per il genere umano che ne vuole approfittarne in maniera scriteriata.

In Asia, Prithvi Mata, la Terra madre, è la divinità principale dell’Hinduismo. La sua presenza cosi’ elevata nel suo pantheon rimanda al periodo pre-ariano dell’India in cui vigevano il matriarcato, e la venerazione dei numerosi aspetti della personalità femminile che si manifestava nell’adorazione delle deesse Lakshmi, Parvati, Durga e altre. Anche qui, come in Africa e in America del Sud, il principio femminile puo’ mutarsi da benefico e creatore in distruttore, qualora i demoni dell’egoismo umano prevalgano incontrollati lasciando presagire la fine di un’era e il cominciamento di un nuovo ciclo epocale.

Verso la fine di un’epoca ?

Dalle loro culle dell’Africa, dell’America del Sud e dell’Asia, la Grande Madre Nera, la Pacha Mama e Prithvi Mata rappresentano le forze insite nei popoli dei tre continenti. Queste forze -energie, coscienza della propria identità, visione del mondo- sono suscettibili, nell’attuale congiuntura internazionale, di convergere verso la sovversione, o almeno la riduzione, del dominio del capitale e dell’ordine unipolare atlantista che lo regge.

Per concludere la prima parte del presente lavoro, che si propone come un insieme di suggestioni alla riflessione, viene spontaneo sollevare una questione.

Se nello schema di Cheikh Anta Diop, il nomadismo settentrionale predominante a partire dalla steppa euro-asiatica o indo-europea -con i suoi attributi dell’erranza, della pastorizia, del patriarcato, della cremazione e del culto del fuoco- appare anche come il frutto di una natura selvaggia e rude, dominata dal freddo glaciale stagionale e da una frequente siccità dei suoli, è legittimo chiedersi se tutte queste condizioni ambientali non abbiano agito come fattori di sviluppo di una cultura guerriera orientata alla progressiva appropriazione, anche violenta, degli spazi e delle risorse, inevitabilmente proiettata al di là degli insediamenti locali e regionali verso la conquista dei continenti, poi del mondo.

Abbiamo qui individuato una delle radici, forse tra le più importanti, di un espansionismo illimitato e che deve essere giustificato come valore culturale supremo, ontologico ? Siamo qui alle origini di « Un pensiero terribile d’Universale » -secondo l’espressione ancora una volta folgorante d’Edouard Glissant nel suo capolavoro Tout Monde- che presiede all’impresa di dominazione occidentale, oggi avviata sul sentiero del suo declino?

Luigi Rosati

L’Africa e l’America Latina dimenticate dall’Occidente impegnato in una guerra pericolosa e dannosa. I Sud aspettano giustizia (L. Rosati) – FarodiRoma