Il “mezzo” non realizza il “fine”: la parità di genere come dilemma sociale

Il “mezzo” non realizza il “fine”: la parità di genere come dilemma sociale

Il tema della conciliazione tra sfera familiare e sfera professionale costituisce una questione cruciale nella società moderna, oltre a porsi come una rilevante sfida politica e sociale a livello europeo. Prima di offrire talune soluzioni, si ritiene doveroso prendere le mosse dai lavori dell’Assemblea Costituente in tema di parità di genere. Le disposizioni costituzionali riservate alla figura femminile, infatti, costituiscono un essenziale punto di partenza per tracciare la condizione attuale della donna. Come ben osservato dall’On. Bianchini, “la Carta costituzionale deve essere intesa non soltanto quale specchio delle condizioni dell’attuale momento, ma porta aperta ad eventuali progressi, ad eventuali realizzazioni di esigenze spirituali vive nella nostra coscienza contemporanea”.

Lo scopo perseguito dalle Costituenti era duplice: da un lato, assicurare una parità di opportunità d’accesso nell’ambito di lavoro; dall’altro, garantire per la donna lavoratrice la sua essenziale funzione femminile. Occorre precisare come in Assemblea Costituente non mancarono posizioni tese a circoscrivere o impedire l’introduzione di norme che sancissero l’eguaglianza effettiva tra uomini e donne. Alle prime donne Costituenti si riconosce il merito di avere contrastato i tentativi di quegli esponenti miranti a vanificare la regola della parità di genere con talune deroghe compromettenti. Uno dei primi interventi sul contenuto dell’art. 37 Cost. fu quello dell’On. Merlin, secondo la quale il riconoscimento della funzione sociale della maternità non investe soltanto la donna, bensì l’intera società (“proteggere la madre significa proteggere la società alla sua radice”).

Significativo è il dibattito incentrato sulla funzione della stessa. L’On. Moro proponeva una formulazione dell’art. 37 Cost. simile a quella corrente (“alla donna lavoratrice sono assicurati tutti i diritti che spettano al lavoratore ed inoltre è garantita in ogni caso la possibilità di adempiere, insieme al suo lavoro, alla sua essenziale missione familiare”). Il problema reale consisteva nell’impiego del termine “essenziale”, che avrebbe potuto vincolare l’attività della donna alla sola sfera familiare, estromettendola così dall’ambito sociale ed economico. Nell’ottica dell’On. Moro, il riferimento alla “essenzialità” della missione familiare della donna costituiva un “chiarimento per il futuro legislatore”, affinché quest’ultimo, nel disciplinare l’attività della donna nel contesto di lavoro, possa tenere presente i “compiti che ne caratterizzano in modo peculiare la vita”. È interessante constatare la sussistenza di posizioni divergenti tra le stesse Costituenti, tra cui quella dell’On. Federici, contraria alla soppressione del termine “essenziale”, giacchè la donna dispiega “nella famiglia complesso grandioso di attività, il cui valore è notevolissimo anche dal punto di vista economico”. A prescindere da tali divergenti posizioni, le Costituenti perseguirono congiuntamente lo scopo di valorizzare l’attività lavorativa della donna, senza trascurare la sua funzione familiare e materna; nell’emendamento del 10 maggio 1947, esse proponevano di introdurre un inciso diretto ad “assicurare alla madre ed al fanciullo una speciale, adeguata protezione”. A fronte di ciò, non deve considerarsi una casualità se la prima legislazione di attuazione dell’art. 37 Cost. fu finalizzata alla tutela della maternità: si segnalano la legge n. 860/1960 (“Tutela fisica ed economica delle lavoratrici madri”) e la legge n. 1204/1971 (“Disposizioni per il sostegno alla maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi delle città”).

È assodato che l’interpretazione della giurisprudenza costituzionale in ordine all’art. 37 Cost. abbia favorito la predisposizione di sistemi a sostegno della donna lavoratrice. Sebbene le pronunce costituzionali siano piuttosto scarse, è interessante rilevare come la maggior parte di esse attengano agli effetti che derivano sulla maternità: dall’indennità di maternità (sent. nn. 132/1991, 360-361/2000, 257/2012) al periodo di astensione obbligatoria dal lavoro per maternità (sent. n. 106/1980). In concreto, i giudici costituzionali mirano a promuovere un’interpretazione positiva dell’art. 37 Cost., in modo tale da elevare l’essenziale funzione familiare quale obiettivo di parità per ambedue i sessi. In tale modo, la Consulta sposta l’attenzione sul valore della famiglia, al fine di sollecitare una maggiore presenza della figura maschile nella sfera familiare. Occorre precisare come solo mediante gli interventi della Consulta si è pervenuti ad un estensione delle tutele nei confronti dei padri.

Nella legge n. 1204/1971, infatti, il soggetto giuridico posto al centro del bilanciamento vita-lavoro era esclusivamente la lavoratrice subordinata. La suddetta lacuna è stata sopperita dalla legge n. 903/1977, con la quale l’ordinamento interno ha recepito la direttiva n. 76/207/CEE, estendendo anche alla figura paterna la fruibilità di istituti taluni adottati dalla antecedente legislazione. In realtà, l’apertura realizzata dalla legge del 1977 risultava debole ed incompleta; il superamento del paradigma della centralità esclusiva della madre lavoratrice ai fini della conciliazione vita-lavoro è avvenuto grazie alla legge n. 53/2000, con la quale si riconosce il congedo parentale anche alla figura maschile, su impulso della direttiva 96/34/CE. Da ciò ne discende che entrambi i genitori iniziano ad essere ritenuti titolari di un importante ruolo di interesse sociale: pur traendo origine dalla fase di procreazione, esso tocca anche le successive fasi della crescita e dell’educazione dei figli. Appare opportuno sottolineare che la legge in esame estendeva alla figura paterna il diritto all’astensione obbligatoria nei primi tre mesi dalla nascita del figlio e il relativo trattamento economico soltanto al verificarsi di taluni casi particolari e tassativi, nonché morte, grave infermità della madre, abbandono o affidamento esclusivo della prole al padre. La condizione di tale figura continuava a essere valutata dal legislatore secondaria, pregiudicando così indirettamente la posizione della donna lavoratrice. Al fine di favorire una cultura di maggiore condivisione dei compiti genitoriali, la legge n. 92/2012 disponeva che il padre lavoratore dipendente, entro cinque mesi dalla nascita della prole, avesse l’obbligo di astenersi dal lavoro per un periodo di un giorno. In aggiunta, entro lo stesso lasso di tempo, egli poteva assentarsi per un ulteriore periodo di due giorni (anche continuativi), previo accordo con la madre ed in sua sostituzione al periodo di astensione obbligatoria spettante alla medesima. In sostanza, tale legge puntava a indirizzare l’ordinamento giuridico italiano verso una nuova ripartizione delle attività familiari. L’esiguità del periodo di astensione, però, non ha consentito alla legge in esame di perseguire l’obiettivo prefissato.

La mancata predisposizione di appositi strumenti normativi diretti a favorire un maggiore coinvolgimento dell’uomo nella vita familiare è riconducibile – a giudizio di chi scrive – alla presenza di stereotipi e pregiudizi di genere. Tale circostanza trova riscontro nei dati Istat: in Italia, nel secondo semestre 2020 opera il 48,4% delle donne, contro il 66,6% degli uomini; è il divario di genere più accentuato rispetto alla media UE. La situazione è degenerata con lo scoppio della pandemia da Covid-19: nel 2020, su quattro lavoratori che hanno perso il posto di lavoro, tre sono donne.

Al fine di promuovere la conciliazione tra sfera privata e sfera professionale, occorre innanzitutto ridefinire il sistema italiano di welfare, incentrato su un modello sociale e familiare che ha privatizzato la cura dei soggetti più fragili mediante il lavoro femminile non retribuito. Si richiede il rafforzamento dei servizi socio-assistenziali; un’adeguata configurazione del diritto ai congedi di maternità, di paternità, parentali; un migliore impiego del lavoro part-time e del lavoro agile (c.d. “smart working”).

Il compito dello Stato è quello di incentivare gli uomini a dedicarsi alla cura della famiglia. In precedenza, la Consulta ha ammesso esplicitamente che la genitorialità è responsabilità condivisa (“senza distinzione o separazione di ruoli”) e il rapporto tra i due sessi deve considerarsi paritario anche rispetto alle esigenze lavorative (sent. n. 1/1987). È, dunque, avvertita la necessità di spostare l’attenzione sui doveri del padre.

Nel Novecento, si è assistiti ad una maggiore presenza delle donne nella sfera pubblica; al contrario, si è rivelata contenuta e lenta l’entrata delle stesse nei centri di decisione politica. Sul versante internazionale, il predetto problema si è tradotto nell’adozione di una gamma di iniziative e misure finalizzate ad attuare la democrazia paritaria. È doveroso chiedersi se il perseguimento di tale obiettivo possa incidere sulla qualità della partecipazione politica. Da un verso, una maggiore partecipazione delle donne nei contesti decisionali non è in grado di rivoluzionare l’assetto democratico; dall’altro verso, invece, la presenza sociale delle medesime potrebbe favorire la predisposizione di un programma nuovo. In Italia, l’art. 51 Cost., così come modificato dalla legge costituzionale n. 30/2003, prevede che il legislatore promuova con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini in relazione all’accesso in condizioni di eguaglianza alle cariche elettive.

Con la storica riforma costituzionale del 2001, la legislazione elettorale cessa di essere materia di legislazione statale, figurando come materia concorrente, i cui principi generali sono contemplati nella legge n. 165/2004. Complice le modifiche apportate dalla legge n. 20/2016, si invitano le Regioni a rivedere la propria normativa elettorale, in conformità con quanto disposto sul piano nazionale. In particolare, le misure adottate dalla legislazione regionale sono state principalmente imperniate sulle quote di lista: i partiti sono obbligati a inserire nelle liste elettorali una quota minima di candidati di ciascun genere.

A tale strumento si affiancava quello della c.d. doppia preferenza di genere, introdotto dalla legge regionale campana n. 4/2009, in relazione alla quale l’Esecutivo ha sollevato questione di legittimità costituzionale, avvalendosi dell’interpretazione del principio di uguaglianza adottato in precedenza dagli stessi giudici costituzionali. Nella sentenza n. 4/2010, la Corte statuisce la legittimità della norma censurata, giacchè “rende maggiormente possibile il riequilibrio, ma non lo impone. Si tratta, quindi, di una misura promozionale, ma non coattiva”. Il predetto meccanismo è stato poi abbracciato da plurime legislazioni elettorali regionali; fino alle elezioni del 20 e 21 settembre 2020, le uniche Regioni a statuto ordinario a non introdurre la doppia preferenza di genere erano Calabria, Puglia, Liguria e Piemonte. Merita considerazione il caso pugliese, in ragione del repentino intervento del Governo finalizzato ad esortare l’adozione dello strumento in esame, in vista delle elezioni del 2020. In realtà, l’atto formale di diffida del 23 luglio 2020 è stato preceduto da un primo invito informale indirizzato anche alla Regione Liguria, la quale aveva dato pronta risposta alla richiesta dell’Esecutivo.

La perdurante inerzia della Regione Puglia ha costretto il Governo a ricorrere al potere sostitutivo ex art. 120, comma 2, Cost., adottando il decreto legge n. 86/2020, con la trasparente finalità di garantire, a tutela dell’unità giuridica della Repubblica, l’effettività del principio di accesso alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, di cui all’art. 51, comma 1, Cost. Tale decreto – convertito con legge n. 98/2020 – disponeva che anche la predetta Regione avrebbe impiegato lo strumento in esame, assegnando così al Prefetto di Bari “il compito di provvedere agli adempimenti conseguenti per l’attuazione del decreto”. La condotta del Governo, pur sollevando forti perplessità di natura costituzionale, deve essere valutata positivamente, quale rilevante step di un percorso lungo e travagliato verso l’affermazione della democrazia paritaria.

Gli interventi normativi compiuti negli ultimi anni hanno senz’altro prodotto buoni “frutti”, ma non i risultati auspicati. In Basilicata, l’approvazione della nuova legge elettorale ha consentito l’ingresso in Consiglio regionale di una sola donna. L’insufficienza delle modifiche apportate è confermata dall’esito delle elezioni regionali del 2020: è plateale la differenza di genere sia nella presentazione delle candidature (su 8 Regioni e 24 candidati, soltanto 6 sono di sesso femminile) sia in termini di risultati elettorali (l’unica donna risultata vincitrice è stata Jole Santelli, Presidente della Calabria).

Da ciò ne discende che i meccanismi normativi finiscono per perdere valenza se le componenti politiche non risultano portatrici di una cultura apertamente orientata alla parità di genere. I comportamenti degli attori politici rivelano la mancanza di quella maturità necessaria a comprendere la rilevanza di una maggiore presenza femminile nel contesto politico. Negli anni ’90 del secolo scorso, si è assistiti ad una netta frattura nel cerchio delle deputate e senatrici, in occasione della discussione sulla possibilità di introdurre quote di genere nella normativa elettorale. Da una parte, un gruppo di donne ha dimostrato tenacia nel rivendicare il diritto ad essere candidate ed elette, in ragione della propria audacia, della propria formazione e dell’ausilio offerto alla categoria femminile. Dall’altra, talune parti hanno seguito la strada della “fattibilità”, ritenendo opportuno procedere per “gradi”. È indiscutibile che tale scenario abbia frenato e ostacolato l’approvazione di norme in materia di promozione della partecipazione femminile nel quadro politico e di riequilibrio di genere nelle istituzioni.

Nell’ottica di chi scrive, il vero “freno” all’affermazione femminile consiste nell’incertezza mostrata dalle stesse donne ad assolvere cariche prestigiose: se tutte le donne votassero donne, gli squilibri di genere nella rappresentanza politica scomparirebbero. Le donne, dunque, sono tenute a dimostrare il loro valore all’elettorato maschile come a quello femminile.

Fino a pochi anni fa, il mancato accesso delle donne alle posizioni di vertice era ricondotto non solo alla sussistenza di stereotipi ma anche all’inesistenza di pioniere. Tale considerazione – a parere di chi scrive – non trova riscontro nella realtà, data la presenza di illustre figure femminili. Il problema risiede nel fatto che esse si limitano a figurare come celebrità del “teatro” politico e non come vere protagoniste del contesto politico. A livello europeo, Ursula Von Der Leyen, Christine Lagarde, Angela Merkel e Roberta Metsola hanno indubbiamente lasciato un’impronta indelebile.

Il “mezzo” non realizza il “fine”: la parità di genere come dilemma sociale