Essere l’angelo di se stesso. Il primo album in studio di Jeff Buckley

Esistono almeno due Grace: quello che ha visto la luce il 23 agosto del 1994 e quello che ha iniziato a esistere dal 29 maggio del 1997. Entrambi sono reali, ma il secondo tende a cannibalizzare il primo. A questo punto però bisogna fare un passo indietro di qualche anno e spostarsi (circa) 5000 chilometri a ovest di Woodstock (dove il disco venne registrato).

A metà dei famigerati anni Ottanta, il neanche ventenne Jeff Scott Buckley – nato ad Anaheim, California, il 17 novembre del ‘66 – decise di compiere un passo abbastanza scontato per essere il figlio di una violoncellista (Mary Guilbert) e di un cantautore stellare come Tim Buckley: si iscrisse al Musicians Institute For Technology di Los Angeles, una scuola di musica piuttosto prestigiosa e impegnativa (a partire dalla retta, che lo obbligò a cimentarsi in diversi lavori precari). Un dettaglio cruciale: si specializzò in chitarra. Sembra assurdo alla luce di tutto quello che è stato, ma in quella fase la voce non rientrava tra le risorse su cui intendeva puntare. Per quanto sia ragionevole dedurre che Jeff fosse pienamente consapevole di quanto valesse come cantante, le testimonianze concordano nel definirlo riluttante a imporsi in tal senso. Il motivo? Evitava in ogni modo di confrontarsi con la figura gigantesca e scomoda del padre, di quel Tim che padre non volle mai essergli e che infine – da ormai un decennio – lo aveva lasciato orfano. Jeff non amava parlarne, evitava quanto possibile di sbandierare quella formidabile parentela, al punto che molti amici – anche tra i più intimi – rimanevano sbalorditi quando lo venivano a sapere (in genere in maniera del tutto casuale).

Il punto è che Jeff ammirava il Tim artista, ma non perdonava il padre assente. Tim Buckley era il suo disastro, una ferita che non voleva saperne di cicatrizzare. Per il resto, era ossessionato dalla musica in generale, compresa quella del padre.

Durante gli anni al Musicians Institute, Jeff prediligeva la fusion (il saggio finale lo vide alle prese con un pezzo dei Weather Report), ma stiamo comunque parlando dell’epoca che vedeva farsi largo sulla scena locale Jane’s Addiction e Red Hot Chili Peppers, piovuti ad assolvere il rock dalle fanfaronate miliardarie di Mötley Crüe e Guns N’Roses, quindi fu inevitabile per lui sterzare dalle parti di un rock più teso e spigoloso, che sfogava militando come chitarrista in compagini quali la AKB Band. Rimaneva però un’attitudine onnivora di base che su un robusto sostrato di rock più o meno classic (dai Led Zeppelin ai Cocteau Twins passando dagli adoratissimi Smiths) lo vide invaghirsi di Billie Holiday, Nina Simone, Edith Piaf, Nusrat Fateh Ali Khan (arrivò a possedere una cinquantina di album di musica qawwali) e via discorrendo.

La penuria di mezzi e la sensazione di non riuscire a trovare una direzione come musicista lo spinsero a un primo viaggio newyorkese, nei primi mesi del 1990, che si concluse con un nulla di fatto: tornò a Los Angeles ancora più disilluso ed emaciato. La svolta arrivò grazie a Herb Cohen, vecchio manager di suo padre, che parlò di lui agli organizzatori di Greetings From Tim Buckley, un concerto tributo in programma a New York nell’aprile del 1991. Superate le titubanze iniziali, Jeff accettò l’invito a parteciparvi: quel 26 aprile, cantando I Never Asked To Be Your Mountain, Phantasmagoria In Two e Once I Was, per lui fu come attraversare una soglia, specchiarsi tutto intero negli occhi del fantasma. In altre parole, fu allora che divenne Jeff Buckley.

Curiosa la nota di presentazione contenuta nel materiale promozionale dell’evento, vergata dallo stesso Jeff: “Cantante, chitarrista, autore di canzoni, post-moderno, di 25 anni. Stile: romantico ultraviolento”. Finalmente si definiva “cantante”, ma quanto ad “autore di canzoni” il bilancio era tutt’altro che esaltante, dal momento che in repertorio aveva un pugno di originali che non avevano ottenuto alcun riscontro. In questo senso fu determinante l’incontro con Gary Lucas, conosciuto proprio in occasione del tributo a Tim. Chitarrista esperto (classe 1952), dalla tecnica considerevole e una certa attitudine per l’hard psichedelico, Lucas rimase talmente impressionato da Jeff da volerlo come frontman della propria band, i Gods And Monsters, un ruolo che il ragazzo di Anaheim ricoprì per un paio di concerti, il tempo di capire che non si trattava del contesto giusto per la strada che intendeva percorrere.

Della collaborazione breve ma intensa con Lucas rimasero in eredità a Jeff un paio di pezzi scritti a quattro mani (Mojo Pin e Grace) e la consapevolezza di poter occupare il centro del palcoscenico senza timore reverenziale. Un upgrade che gli tornò utile per la successiva esperienza al Sin-é, un piccolo café dell’east village che dall’aprile del ‘92 lo vide esibirsi ogni lunedì sera in solitario, armato di chitarra elettrica e di una voce che ormai poteva permettersi tanto la ruvidità al calor bianco che il languore, un dinamismo disinvolto e persino il lusso di scherzi caricaturali per movimentare le serate. Le scalette prevedevano molte cover (di Dylan, Van Morrison, Led Zeppelin, Nina Simone…) a cui alternava originali ormai prossimi alla forma definitiva. In breve si costruì una fanbase e soprattutto attirò le attenzioni delle case discografiche, le cui antenne in quel periodo erano particolarmente sensibili nei confronti di tutti i possibili nuovi portenti rock da spedire in scia ai lucrosi fenomeni del grunge e dintorni.

La spuntò la gloriosa Columbia, malgrado Jeff non avesse mai nascosto la propria insofferenza per le major, come del resto non fece nei mesi successivi. Seguì un periodo improduttivo sul piano delle idee, tanto da indurre i manager dell’etichetta a spingere per l’uscita di un EP dal vivo che tenesse in caldo le aspettative attorno al nuovo potenziale diamante del rooster: registrare il Live At The Sin-é non fu però semplicissimo a causa dell’evidente disagio di Jeff per la presenza dei tecnici che rendevano anomala l’atmosfera del piccolo café. Tuttavia, un secondo giro di sessioni portò al risultato noto, una specie di autodafé musicale in bilico tra rarefazione e incendio, tra assalto, goliardia e languore. Per il conseguente tour Jeff aveva ovviamente bisogno di mettere assieme una band, ma volle che fosse davvero la propria band, perciò si oppose ai nomi anche prestigiosi messi a disposizione dalla Columbia per ripiegare su ragazzi con poca o pochissima esperienza: il bassista Mick Grøndahl, il batterista Matt Johnson e il praticamente esordiente chitarrista Michael Tighe (un attore amico di Rebecca Moore, la cui relazione con Jeff era ancora in piedi ma già sul punto di esaurirsi).

Il tour promozionale per Live At Sin-é irrobustì l’intesa tra i quattro, che si presentarono quindi belli carichi all’appuntamento con le registrazioni di Grace, nell’autunno del 1993. Lo studio era il Bearsville di Woodstock e la scelta del produttore ricadde sull’esperto e versatile Andy Wallace, già al lavoro per Run D.M.C., Afrika Bambaataa, Slayer, Sonic Youth e Screaming Trees, nonché tecnico del suono per un album cardine dei 90s come Nevermind. Non c’erano molti pezzi originali a disposizione, problema che divenne più stringente quando Jeff iniziò a opporsi all’inclusione in scaletta di Forget Her, una ballata in bilico tra rock e soul che aveva suscitato un certo entusiasmo negli uffici dell’etichetta ma che calava sul tavolo carte troppo personali (appunto la fine della storia con la Moore). Fu subito chiaro che la scaletta avrebbe dovuto prevedere un certo numero di cover, anche se in fondo era una specie di atto dovuto considerata l’incontenibile attitudine per la reinterpretazione dimostrata da Jeff nelle apprezzate esibizioni newyorkesi.

In effetti, se non poteva dirsi granché prolifico come compositore, come interprete giocava già in un campionato di primo livello: più che rileggere i pezzi altrui, se ne impadroniva, li spingeva sulla linea d’ombra tra ossessione e trasfigurazione, territorio che Jeff esplorava alla ricerca di se stesso, tanto come individuo che come artista. Il blues jazz di Lilac Wine (scritto da James Shelton e conosciuto da Jeff nella versione di Nina Simone del ‘66), lo spiritual madreperlaceo del traditional Corpus Christi Carol e il folk soul irrorato di gospel di Hallelujah (di Leonard Cohen ma basato sulla versione di John Cale contenuta nell’album tributo I’m Your Fan del 1991), mettono in scena un Buckley tormentato ma sempre sul punto di precipitare nell’estasi, scosso dalla possibilità inesausta del sublime anche nelle more del più completo smarrimento. Un conflitto che fa vacillare il realismo e sposta il baricentro espressivo su un piano marcatamente onirico: non a caso la scaletta si apre con Mojo Pin, in cui le allusioni all’eroina (ammesse dallo stesso Jeff) si stemperano tra tessiture psichedeliche di chitarra e una struttura circolare e al tempo stesso discontinua, vicina a certa teatralità dei Doors ma peculiare nel maltrattare umori soul e jazz con assalti rock all’arma bianca.

Ciò che vale anche per la title track, anch’essa frutto della collaborazione con Lucas (non a caso chiamato a prestarsi come chitarrista aggiunto in entrambi i pezzi): il senso di mancanza raggiunge livelli di incandescenza epici, ribaditi dal lavoro di un quartetto d’archi e dalla spinta della sezione ritmica, mentre le chitarre si infervorano tra arpeggi e riff vorticosi, come un melodramma Smiths degenerato in un incubo Led Zeppelin. La prova vocale di Jeff è sbalorditiva, l’estensione strattonata fino a un diapason parossistico tra rapimento e angoscia: viene da pensare al ruggito di un’anima che si strappa e che lacerandosi – per dirla alla Fiumani – impazzisce di luce.

Proprio qui si può intravedere il senso di Jeff Buckley per quel particolare frangente storico: in lui si avverte una natura angelica, di messaggero e ponte tra due dimensioni, da un lato quella di un’epoca che sta sgretolando la fiducia nelle “magnifiche sorti e progressive”, dove ristagna una generazione sempre più consapevole del vicolo cieco apparecchiato dalle generazioni precedenti, e dall’altro quella del riscatto esistenziale, della facoltà di trascendere il disastro delle prospettive attraverso una rivelazione artistica (quindi a-storica) di sé.

Pur nutrendosi di insofferenza e disagio nei confronti del “sistema” in maniera simile a come stava facendo il quasi coetaneo Kurt Cobain (più giovane di appena tre mesi), si distingue dal leader dei Nirvana proprio per la fiducia in un sovramondo musicale a cui accedere grazie a una fiammata di puro abbandono: se Cobain sembrava evidentemente avvitarsi in una spirale autodistruttiva che lo spingeva ad accartocciarsi giorno dopo giorno in un martirio tutt’altro che imprevedibile (quando si suiciderà, ben prima che Grace finisse sugli scaffali, ne fummo tutti addolorati, ma in quanti ne furono sorpresi?), Jeff invece mantiene sempre aperta la possibilità di evadere dalla gabbia asfissiante delle convenzioni, delle ambizioni, dei compromessi.

In questo senso, le manifestazioni di aperta ostilità nei confronti di chi insisteva a paragonarlo al padre, così come la sua condotta da rockstar riluttante, vanno interpretate come il rifiuto di aderire ai percorsi tracciati da un meccanismo economico/culturale basato sulla pianificazione, sul soddisfacimento delle aspettative come metodo e finalità. In quei giorni di apoteosi grunge, Jeff Buckley cadde sulla scena come un’anomalia: troppo raffinato e complesso per il vocabolario codificato in quel di Seattle, troppo aspro e irrequieto per il target adult-rock, troppo punk per essere soul, troppo soul per essere punk, troppo soul e punk e fusion tutto assieme per essere – in poche parole – radiofonico. La sua spudorata ambizione fu di mettere in scena una potente rappresentazione della fragilità, circondato da una band anonima, sbandierando un groviglio di stili musicali che rendevano problematica la categorizzazione, mostrandosi come un crooner efebico con un piede nella realtà artificiosa dello spettacolo e l’altro nell’allucinazione concreta del sogno.

Si deve insistere appunto su questo: Grace è un disco intriso di sogno, in bilico sulla soglia dove la veglia scivola e si ritira, sfumando nella visione onirica. È un luogo pieno di varchi. Che poi è esattamente dove prendono vita e si consumano Dream Brother e So Real, non a caso due canzoni composte a sessioni già iniziate: in entrambe il lirismo ciondola in uno scenario paludoso, districandosi tra spettri 60s e ipnosi raga la prima (basata su un’improvvisazione ad alto tasso psichedelico tra Buckley, Grøndahl e Johnson, quindi arricchita in studio dal tabla di Masha Masud), mentre la seconda (portata in dote da un’intuizione del novellino Tighe) arranca su strofe farneticanti come un Nick Cave snervato (“We walked around ‘til the moon got full like a plate/And the wind blew an invocation and I fell asleep at the gate”) per poi arrostire i fantasmi in un chorus da Morrissey invasato Alice In Chains. Non a caso So Real uscì come terzo singolo, accompagnato da un video dalle neanche troppo vaghe influenze lynchiane che ribadisce quanto detto fin qui.

La scelta del secondo singolo (il primo ovviamente fu la title track) ricadde su Last Goodbye, che assieme al quarto estratto Eternal Life sembra anticipare il Grace che iniziò a esistere dopo la scomparsa (termine quanto mai opportuno) di Jeff: se è vero che la morte era per lui un pensiero ricorrente – come lui stesso ammise del resto – va detto che il tema non è mai davvero dominante, rappresentando al più la tipica nota di fondo melò (nel folk rock iniettato di esotismo e languore di Last Goodbye, sorta di epigrafe su una storia d’amore giunta all’ultimo capitolo), oppure l’espediente metaforico per una riflessione sarcastica sui miraggi ingannevoli del successo (“Got my red glitter coffin, man, just need one last nail”) nella nevrosi/necrosi grunge – pur sempre sui generis – di Eternal Life.

Nel valzer soul di Lover, You Should’ve Come Over sembra riassumersi un aspetto cruciale del Jeff autore di canzoni, che presupponeva un se stesso ai limiti del crooning, disposto cioè ad accoccolarsi in una struttura canonica (alla cui morbidezza cui contribuisce l’organo tiepido di Loris Holland) ma confidente nella capacità di speronare la linea melodica non appena si oltrepassa la soglia dell’equilibrio – volutamente precario – tra ragione e sentimento (a partire cioè da quel verso – impagabilmente shakespeariano – che è “My kingdom for a kiss upon her shoulder”). Il risultato è una canzone bellissima, ma pressoché impossibile da interpretare se non sei Jeff Buckley (tra le cover che conosco, forse quella che più si avvicina alla potenza dell’originale è quella di un’insospettabile Nikka Costa).

Proprio questo dinamismo interno alla canzone, che prevede punti di rottura, collasso e superamento, è l’aspetto che sfugge alla pletora di performer che si sono cimentati in Hallelujah dalla sua apparizione nell’edizione 2008 di X Factor UK: in breve, Hallelujah è diventata una prova standard per i talent di questo tipo, una specie di cimento finalizzato a consacrare le doti del performer di turno. Va da sé che questa modalità da attrezzo con cui eseguire evoluzioni vocali sotto una rugiada di spiritualità farlocca si colloca più o meno agli antipodi tanto della composizione originale di Cohen quanto della rilettura di Cale, ma ha ben poco a che vedere anche rispetto al canone definito suo malgrado da Jeff, il quale fa perno sull’innegabile virtuosismo solo per sgozzarlo sull’altare della consapevolezza e del mistero, dell’impenetrabilità sacra e al tempo stesso ironica dell’amore contrapposta alla sfacciata evidenza del suo potere. Jeff si impadronisce della canzone lasciandosi sopraffare da essa: come fa con Lilac Wine, di fronte al cui cupo struggimento sembra prostrarsi per poi infestarlo come uno spettro che cerca di restituire un corpo al proprio dolore.

Per tutto ciò, credo si possa dire che nel momento in cui viene pubblicato Grace la (formidabile) statura di interprete di Jeff Buckley superava quella di autore, seppure i quattro pezzi scritti di suo pugno (compreso Forget Her) e i quattro scritti in collaborazione siano molto buoni e in un paio di casi (a mio avviso Grace e Lover, You Should’ve Come Over) eccezionali.

Come sappiamo, il successivo My Sweetheart The Drunk avrebbe dovuto far emergere con prepotenza il Jeff autore, con ben tredici pezzi scritti in autonomia e altri tre assieme a Tighe e Grondahl: il fatto che siano rimasti a livello di abbozzi (sketches) non permette di giudicare adeguatamente, ma la sensazione è che sul fronte della composizione il Buckley trentenne fosse ancora un diamante grezzo, capace sì di intuizioni abbacinanti ma non sempre a fuoco, come se gli fosse impossibile abbandonare il solco tra sogno e ossessione, o forse temesse di farlo, di vedersi definito una volta per tutte nella griglia della realtà, di affrontare il riflesso inappellabile di sé.

La scomparsa di Jeff ha questo di congruo rispetto alla sua vicenda: lascia aperte più ipotesi di quante ne chiuda. È stato un incidente, una leggerezza, un suicidio, oppure – più ambiguamente – un esporsi deliberato al rischio di annegare nel Wolf River? Considerata la ricostruzione e le testimonianze di cui disponiamo, temo che la sentenza definitiva non arriverà mai. Credo del resto che sarebbe un errore inseguirla, così come penso che sbagli chi a partire da quel 29 maggio del ‘97 interpreta tutta l’eredità musicale di Jeff (drammaticamente esigua) come uno scivolare nelle acque nere della morte, come l’annuncio di un martirio. Vale soprattutto per Grace: un album che si muove dalla prima all’ultima nota sul crinale tra realtà e sogno, spinto dal bisogno profondo di illuminare la vita.

Jeff Buckley non si muoveva in un vicolo cieco più di quanto non capiti a ogni singolo individuo su questo meraviglioso e fottuto pianeta. Nelle sue canzoni si avverte la tensione verso quel livello superiore in grado di giustificare il guazzabuglio di lacune, falsi movimenti e imperfezioni che in mancanza di termini più appropriati siamo soliti chiamare “io”. Cos’è stata la sua vicenda artistica, umanissima e (perciò) emblematica, se non l’insostenibile tentativo di essere l’angelo di se stesso?

Essere l’angelo di se stesso. Il primo album in studio di Jeff Buckley