Dire e vivere la fede nel contesto secolare

Bruxelles, 1-6 giugno, congresso dell’Equipe Europea di Catechesi. Oltre 60 i partecipanti, 15 i paesi rappresentati. Attuale e coinvolgente la tematica “L’inserimento profetico della fede nella cultura europea postmoderna”. Buone le linee di ricerca. Qualificata la spinta verso cambi di paradigmi ecclesiali e catechistici. Un invito ad affinare gli occhi per discernere il Regno di Dio che è già presente in mezzo a noi, a lasciarci evangelizzare dalle figure evangeliche già disseminate nella vita sociale, lasciarsi istruire da esse.

Comprendere la secolarizzazione

La secolarizzazione è contemporanea al crollo della religione, in particolare di quella cristiana. Ci sono molte parole per indicare questo crollo: crisi, declino allontanamento, detradizionalizzazione, esculturazione, esilio, disincanto del mondo, crollo del mondo cristiano.

La catechesi è in prima linea nello sperimentare tutta la forza di questo allontanamento della società secolarizzata dalla fede. Assistiamo a un declino della fede cristiana ereditata, e ad una erosione del cristianesimo sociale. È la figura della “religione culturale” che è al capolinea e in via di estinzione. È diventata irrilevante, insignificante per i nostri contemporanei, soprattutto per le nuove generazioni.

Guido Vanheerwjck (Università di Anversa e Lovanio) ha messo in luce che le cose sono diventate più complesse agli occhi dei ricercatori. Infatti, sia la società secolarizzata sia le stesse religioni stanno subendo delle ricomposizioni che interferiscono e si condizionano a vicenda.

È corretto diagnosticare che, con velocità, stiamo passando dalla logica del “meno” a quella del “quasi non più”. Ci sono, per esempio, in un periodo di tempo definito di 5 o 10 anni, meno catechizzati, meno sacramenti, meno gruppi di azione caritativa. Ci sono anche meno sacerdoti, e la recente crisi del Covid ha fatto da acceleratore, sempre meno soldi per far funzionare la macchina ancora complessa di una costosa istituzione. Quando si è arrivati a uno stadio di “quasi non più”, pensare alla cura pastorale diventa una sfida complessa. Anche se non bisogna generalizzare.

La religione non è assente e non è scomparsa, ma non è più il quadro di riferimento dell’intera cultura. La Chiesa non vive più in un mondo cristiano, ma nel mondo. Comunque «sopravviverà per due motivi: esiste un “nucleo duro” che trova ancora più forza in quanto è minacciato. D’altra parte, c’è una richiesta di spiritualità nella società e la secolarizzazione non è esattamente sinonimo di “materialismo”».

I valori dominanti in Europa fino agli anni Sessanta erano valori cristiani secolarizzati. Questo ora non vale più. Si voleva basare i valori dell’Europa sui diritti umani. Ma hanno contribuito ad accentuare l’individualismo che accompagna la crisi del legame sociale e della globalizzazione.

Il problema del cristianesimo è che non ha più alcuna legittimità, deve riconoscere di essere una minoranza e uscire dalla fortezza per offrire una risposta a questa diffusa richiesta di spiritualità nella società. Una richiesta che avvantaggia i fondamentalisti protestanti (evangelici), i musulmani (salafiti), le sette (testimoni di Geova) o una spiritualità diffusa (zen, autorealizzazione, medicina sommersa…).

Visibilità pubblica ridotta

È pur vero che, da tempo, nei confronti del cattolicesimo, il mondo delle élites in genere, mostra un’indifferenza venata di larvata ostilità: ad esempio, considerando una violazione del principio di laicità la presenza cristiana nello spazio pubblico a qualsiasi titolo essa sia. Si verifica così un fenomeno paradossale: il dato religioso, tenuto nella massima considerazione quando si tratta di religioni diverse da quella cristiana, in quest’ultimo caso, invece, è oggetto perlopiù di un’infastidita rimozione/emarginazione.

Con due gravi conseguenze: di non accrescere certo le simpatie per l’Europa in vaste cerchie delle popolazioni del continente che, anche se magari lontane dalla pratica religiosa, non sono tuttavia disposte a staccarsi dalla tradizione cristiana, e di regalare ai nemici dell’Europa l’ennesimo facile argomento di propaganda.[1]

Tutti i populisti affermano di sostenere l’identità cristiana europea, ma per la maggior parte essi non sono praticanti e rigettano i valori cristiani. Facendo così, essi uccidono lo spirito della cristianità e lo fanno diventare qualcosa di folcloristico e privo di contenuto spirituale contribuendo a secolarizzare la cristianità trasformandola in un mero mercato etnico-culturale di identità.

Dilatazione del mondo secolare

D’altro canto, la religione cristiana, enfatizzando il trascendente, ha aperto lo spazio per un mondo secolare, autonomo, che non ha bisogno di Dio. Allo stesso tempo, il progresso della scienza ha portato a privilegiare il ragionamento e a liberare dal pensiero magico.

Una cultura secolarizzata è da preferire a una cultura religiosa in cui un credo si impone sull’intera cultura. La legittimità di una cultura secolarizzata consiste nel riconoscimento della libertà religiosa. Non a caso la società disincantata anela essa stessa a un reincanto, ma in modi nuovi.

Provo a visibilizzare questo bisogno di spiritualità con una breve digressione esperienziale. Di passaggio dall’aeroporto di Bruxelles sono stato incuriosito dal simbolo che indicava la presenza di un luogo per la preghiera. Dopo la prima rampa di scala mobile, che dava accesso alle sale d’attesa di prima classe, mi sono trovato di fronte una rampa impegnativa di scala normale che dirigeva verso il luogo di preghiera. Immaginavo di trovarmi di fronte alla solita cappella cattolica. Con mia sorpresa in batteria erano dislocate alcune stanze per le diverse espressioni religiose: cattolici, ortodossi, protestanti, ebrei, musulmani, e una sala per un confronto su problematiche morali. Facile dire che era più affollato il duty free rispetto a questo spazio di aeroporto. E, nel breve tempo che mi sono concesso, mi sono imbattuto in una sola persona.

A partire da questo vissuto ho sentito risuonare in modo forte la domanda del congresso: Come inserire profeticamente la fede nella cultura contemporanea? Come vivere l’appartenenza in un contesto plurale. Come trasmettere la fede ricevuta senza rimanere imprigionati in forme e istituzioni predefinite? Cosa può voler dire essere Chiesa?

La necessità della Chiesa

Il card. Joseph De Kesel, arcivescovo di Malines-Bruxelles, rifacendosi alle linee proposte in un suo libro recente[2] ha evidenziato che nessuna religione può esistere e sopravvivere senza un minino di strutture. Ecco allora la ragion d’essere della Chiesa: essa si trova ad essere la forma di organizzazione del cristianesimo e non solo.

Secondo questo punto di vista, la Chiesa nella sua struttura deve continuamente essere adattata. Deve imparare a rispondere meglio ai bisogni del nostro tempo, meglio funzionare, meglio corrispondere alle attese dell’uomo di oggi.

La vera questione è sapere perché Dio ha bisogno della Chiesa. Non c’è che una risposta: perché Dio la vuole. Quando si parla di Dio, si intende Dio come la tradizione biblica e cristiana ce l’hanno fatto conoscere, e questa tradizione ha qualcosa da dire a riguardo di Dio che è unico e che, allo stesso tempo, è di grande importanza per l’uomo e la sua salvezza, per il mondo e per il suo futuro. È il fatto che Dio ci cerca, che noi siamo molto importanti per Lui, che Dio ci ama.

Ma, se è vero che Dio è alla ricerca dell’uomo, se in lui si ha veramente questo desiderio di incontrarlo e di condividere con lui, allora è là che bisogna cercare l’origine e la ragion d’essere della Chiesa. Dio non è solo colui che dona la vita, ma anche colui che vuole condividere questa vita. Creazione e rivelazione hanno come unico obiettivo l’alleanza.

Alla fine, quando tutto sarà compiuto, non è la Chiesa che sarà salvata, ma la creazione. Ciò che Dio vuole è che l’uomo viva, e che la sua creazione possa riuscire (Gv 10,10). Anche se nessun essere umano al mondo conoscesse Dio e nessuno avesse coscienza del suo amore per la sua creazione, rimane vero che Dio ama questo mondo ed è quella la sola ragione della nostra esistenza.

Il cammino di libertà

La fede e l’amore presuppongono la libertà e Dio è il primo a rispettare questa libertà. È la grandezza di Dio e il mistero del suo amore ad aver creato un essere che è capace di negarlo. Ciò che Dio cerca è l’alleanza e l’amicizia. Niente di straordinario che la liturgia eucaristica sia al cuore della Chiesa. È la preghiera per eccellenza. È come tutte le liturgie celebrazione dell’alleanza. Così come una famiglia si ritrova per un pasto in diverse occasioni, ma sempre per celebrare le stesse cose: l’alleanza, il bene, la gioia di essere vicino l’un l’altro. La Chiesa condivide le gioie e le sofferenze degli uomini, resta sempre legata al mondo.

Le nostre chiese si trovano sulla strada e le porte sono aperte a tutti. In una società segnata dalla secolarità e dal pluralismo, siamo chiamati a vivere insieme nel rispetto delle altre convinzioni. Nessuna pastorale è degna di questo nome se non si basa sul rispetto dell’alterità e della libertà dell’altro. La Chiesa ha una missione universale ma, allo stesso tempo, cura la propria particolarità. Non è il mondo né l’insieme dei popoli, è il popolo di Dio che vive in mezzo alle nazioni. Ciò che Dio chiede è di riservargli dei luoghi dove può, già ora, abitare in mezzo a noi.

Chiesa missionaria

In tempo di secolarizzazione la Chiesa non può essere una comunità chiusa. La vera questione non è sapere se la Chiesa è capace di conservare il numero attuale di membri, ma se può attirarne di nuovi, se qualcuno che è interamente integrato nella cultura secolarizzata di oggi è capace di essere toccato dalla verità, dalla forza e dalla bontà dell’Evangelo. Rimane comunque assodato che la missione non può essere confusa con la restaurazione di una civiltà cristiana omogenea.

Se la cristianizzazione dell’intera società diventa l’obiettivo della nostra presenza nel mondo, si perde ogni credibilità. La Chiesa non è chiamata a inglobare progressivamente il mondo e ad accogliere al suo interno tutta la società. La Chiesa è la comunità dei cristiani e non la riunificazione di tutta la popolazione.

Nel vangelo, si fa spesso distinzione tra i discepoli e la folla (Mt 5,1-2). La Chiesa è il popolo di Dio in cammino e, come Gesù, deve “scomparire tra la folla” quando le persone iniziano a credere, quando acquisiscono nuove forme di fede.

La Chiesa che si mescola nella folla è permanentemente in divenire. In tal senso, il brano di Gv 10,1-21 è ugualmente significativo. Gesù si rivela come il buon pastore e come la porta delle pecore. Il brano parla di un gregge e di un ovile, tuttavia non separa un “dentro” dove entrare e un “fuori” verso dove uscire (v. 4).

Il versetto 9 afferma: «Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato, entrerà e uscirà e troverà pascolo». Non è importante il “dentro” e il “fuori”, solo il passaggio che situa in Cristo è importante.

Sempre in questa linea, come non ricordare che anche attorno a Cristo Gesù c’erano i fedeli discepoli, e la folla a volte fedele e in altre occasioni più distratta e preoccupata della propria quotidianità.

Le persone che intraprendono il cammino di fede sono dei “sismografi” per le vie della Chiesa missionaria. In una prospettiva missionaria non ci sono processi univoci, né devono esserlo. Una Chiesa missionaria e mondiale è caratterizzata da incoerenze, e in questo senso anche le incomprensioni e i conflitti fanno parte dei processi di apprendimento.

La dimensione di fragilità e fatica aiuta a capire che la Chiesa non è tutto, è un popolo tra gli altri popoli. Ma è un popolo chiamato tra tutti i popoli. Il riconoscimento del suo carattere limitato trova la sorgente nel rispetto per il mondo e anche nel rispetto per ciò che essa stessa è.

Il cambio di prospettiva

La questione – ha sostenuto il cardinale di Bruxelles – non è sapere se la Chiesa deve essere missionaria, ma piuttosto come lo deve essere, senza aspirare a una ricristianizzazione della società.

C’è una risposta duplice. In primo luogo, non possiamo condannare questa società moderna perché non è più cristiana. Questo non vuol dire che si deve assimilare e sottoscrivere tutto quello che questa società propone. Ma si è cittadini di questa cultura.

E questa è la seconda risposta: si deve essere presenti al nostro mondo, semplicemente essendo Chiesa. Facendo quello a cui si è chiamati: cercare Dio, ascoltare la Parola, rispondergli con la preghiera e la liturgia, nell’azione di grazie e nella lode (At 2,42).

È precisamente essendo Chiesa che si è sacramento per il mondo. È in ragione di ciò che si vive all’interno della comunità che la Chiesa può essere significativa all’esterno, questo è il cammino che Dio ha scelto per far conoscere il suo nome e il suo amore. Essa non fa missione, la missione non è una delle sue attività, perché essa stessa è missione.

Nel contesto dell’enorme crisi della Chiesa di oggi, Mergit Eckholt (Università di Osnabrück) ha richiamato la necessità di una visione profetico-costruttiva per il futuro della Chiesa.

La Chiesa cattolica si trova a un bivio: deve chiarire la questione del potere e della partecipazione. Una più forte partecipazione dei laici, in particolare delle donne nella Chiesa, il superamento delle strutture clericali e un serio confronto con le forme di vita della comunità, che si sono ripetutamente presentate negli ultimi anni, indicano la radice di una crisi della trasmissione della fede in generale.

Non si tratta di questioni periferiche, che si collocano solo a livello funzionale della Chiesa, né di questioni che riguardano solo le Chiese dell’occidente. Pluralizzazione, secolarizzazione e diversificazione delle forme di fede stanno emergendo in tutte le regioni del mondo.

L’uguaglianza di genere è una pietra di paragone per la capacità della Chiesa di inculturare la società post-moderna. Risulta pietra di paragone per verificare se la Chiesa stessa è pronta per una nuova conversione alla Parola di Dio e per ascoltare il messaggio liberatorio del regno di Dio. In questo senso, fede e vita si separano in un doppio senso: la Chiesa è in ritardo rispetto alla fede e alla vita da molto tempo ed è per questo che il coraggio di una trasformazione è necessario nel contesto dei percorsi mondiali. Lo stesso Direttorio della Catechesi chiede «una vera riforma delle strutture e delle dinamiche ecclesiali» (40).

Questo presuppone la capacità di lasciare il proselitismo per favorire il dialogo. La Chiesa sa di essere il nuovo popolo di Dio, ma questo non significa che sarebbe preferibile che il giudaismo cessasse di esistere. La Chiesa non sostituisce il popolo che Dio si è scelto. La novità apportata dalla Chiesa è giustamente che i pagani hanno ugualmente accesso all’unico popolo della Promessa.

Il fatto che il popolo giudaico continui a far parte del piano di salvezza di Dio preserva dall’ecclesiocentrismo. Dio ha amato dall’inizio questo mondo in Cristo, ciò che ha cominciato lo compirà. Egli ha bisogno per questo della Chiesa. Essa è il sacramento visibile e il segno efficace. Non è la Chiesa, ma Dio stesso, che rimane l’attore della redenzione, e nessun altro.

Appare chiaramente come oggi le religioni siano chiamate a incontrarsi e ad apprezzarsi, per pregare e operare per un’umanità degna e per la salvezza di tutti. L’annuncio del vangelo è diventato oggi inseparabile da questo dialogo interreligioso.

Conseguenze catechistiche

In questo contesto culturale, la grande sfida per la catechesi è quella di suscitare nuove pedagogie della fede, nuovi modi di insegnare la via del bene. La ricerca del bene non riguarda principalmente regole e comandamenti. Va molto più in profondità. Diventa riconoscimento che i desideri nella nostra natura rimangono la ricerca del bene, del bello e del vero. C’è una visione più antica che dobbiamo riscoprire e che vedeva l’essere buoni come un cammino verso Dio e verso la felicità.

Questo chiede di andare incontro all’altro per unirsi a lui nella sua ricerca. È chiaro che la grande sfida per il cristianesimo oggi è sapere come entrare in contatto con le molte persone che cercano Dio, ma non vengono in Chiesa.

Cristo è scomparso nella folla e noi dobbiamo trovarlo mescolandoci a loro. L’uomo di scienza – dice il Direttorio – è un testimone appassionato del mistero, cerca la verità con sincerità, è naturalmente incline alla collaborazione, alla comunicazione e al dialogo. Coltiva la profondità, il rigore e l’accuratezza del ragionamento; ama l’onestà intellettuale». In questa prospettiva tutti noi siamo assegnati alla ricerca in un’onesta perplessità. Tutti fratelli, tutti cercatori, sullo stesso cammino.

La sfida è quella di partecipare alla genesi delle culture e, di conseguenza, all’inculturazione della fede nel mondo a venire. Non importa se si è minoranza. Le minoranze attive si trovano sulla soglia del futuro che sta arrivando.

Paul Lakeland ci lascia un prezioso ammonimento: «Mentre riflettiamo se la fede ha un futuro, dobbiamo pensare se abbiamo fede nel futuro».[3] La speranza che alimenta la fede di oggi non dovrebbe essere un desiderio nostalgico, ma il riconoscimento che le comunità vive possono davvero essere minoranze creative, oasi piene di risorse in una civiltà che ha ancora sete di Dio. Solo la speranza può sostenere una minoranza in esilio (Ger 29,5-7).

La catechesi kerigmatica richiamata con forza da papa Francesco (EG 165-168) deve esprimere l’amore salvifico di Dio che precede qualsiasi obbligo morale e religioso. Non deve imporre la verità ma fare appello alla libertà, deve essere caratterizzata dalla gioia, dall’incoraggiamento, dalla vivacità e da un equilibrio armonioso che non riduca la predicazione a poche dottrine, a volte più filosofiche che evangeliche. Essenziale per la vita religiosa in una società secolare è che essa abbia origine all’interno della persona e non derivi solo da abitudini ereditate o dalla pressione sociale.

Non solo questione di linguaggio, ma discernimento

All’interno di questa mutata prospettiva sull’uomo e sul mondo, la visione di Dio come ineffabile (Deus absconditus) ha prodotto una secolarizzazione radicale. Il linguaggio ha perso il suo sottile potere di rendere visibile la realtà incarnata del Dio “storico”.

Pertanto c’è bisogno di trovare linguaggi più sottili. Dobbiamo innovare nel linguaggio, e portare i limiti dell’esperienza alla chiarezza di formulazioni che aprano una zona normalmente al di fuori della nostra gamma di pensiero e di attenzione. Il nostro essere immagine di Dio è anche il nostro stare tra gli altri nella corrente dell’amore. Ciò significa che il primo dovere dei cristiani non consiste nel convertire gli altri alla fede, ma soprattutto nell’affinare i propri occhi per discernere nella società e nello stesso popolo cristiano i modi di essere e di agire che, come le beatitudini, rappresentano il Regno di Dio. È la sfida a sviluppare il bellissimo spazio dell’ospitalità reciproca che ogni visita offre.

La ricerca di una comprensione della fede è una storia di processi di traduzione tra i più diversi, da Gerusalemme ad Atene, a Roma, alla Gallia, alla Germania, fino al mondo plurale e alla diversità delle culture del nostro tempo.

Sulle orme di Gesù Cristo, guidato dallo Spirito di Dio che rende l’uomo capace di parlare veramente di Dio, il linguaggio può allenarsi sempre di più per poter parlare di Dio in modo tale che lui stesso possa parlare in questo discorso.

Gesù Cristo ha dato un volto alla parola imperscrutabile, ha fatto parlare la Parola di Dio, ha così svelato la ricerca di Dio sepolta e distrutta dagli idoli, ed è stato lui stesso descritto come «immagine del Dio invisibile» (Col 1,15).

Nella croce di Gesù Cristo si sono incrociate tutte le immagini di Dio, e l’amore creativo di Dio è emerso come amore, nel più profondo riconoscimento dell’altro. È proprio nella notte della croce che si apre la luce del mattino.

Camminare sulle orme di Gesù Cristo e da lì far crescere la comunità dei credenti, permette di trovare la strada di una relazione personale con Dio, e un parlare di Dio in tutta la sua diversità, come ringraziamento, come grido, come lode, come espressione di paura e di gioia, di fiducia che Dio apre al futuro.

Nel linguaggio con cui parliamo di Dio, Dio può essere annunciato, ma ciò deve avvenire sempre in modo tale che la parola non possa mai diventare un’immagine di cui disponiamo. Non si può e non si deve rendere Dio disponibile per noi in alcun modo.

Oggi è importante prendere sul serio i processi dinamici e fragili di crescita nella fede e quindi la libertà e la soggettività dei credenti. Questo include il permettere dubbi, distanze, disaccordi, ma soprattutto il vivere l’esperienza dell’amore di un Dio che non abbandona le persone perché desiderano lui. Le persone identificano questo Dio nei luoghi in cui avviene qualcosa di nuovo nella loro vita, dove amano e soffrono, dove sono vulnerabili e si rendono vulnerabili nel loro impegno verso gli altri. È la pratica della dedizione incondizionata all’uomo e il suo luogo è la sfera dell’interpersonalità.

A mo’ di chiusura

Dio: «È ancora qui; ci sussurra ancora, ci fa ancora segno. Ma la sua voce è troppo bassa, e il frastuono del mondo è così forte, e i suoi segni sono così nascosti, e il mondo è così inquieto, che è difficile stabilire quando si rivolge a noi, e cosa dice».[4]

La religione e il cristianesimo non si sono estinti nell’era secolare: sono stati trasformati, trasfigurati. Ci troviamo nello spazio aperto di un nuovo paesaggio spirituale, dove i venti soffiano da tutte le direzioni. Stando in quello spazio aperto, il Signore accetta la fragilità che tutti noi, credenti e non credenti, stiamo sperimentando.


[1] Oliver Roy, L’Europa è ancora cristiana? Cosa resta delle nostre radici religiose, Feltrinelli, 2019.

[2] J. De Kesel, Foi e religion dans une société moderne, Salvator, Paris 2021.

[3] Paul Lakeland, “La fede ha un futuro?”, Cross Currents, 1998-99.

[4] John Henry Newman, Sermone 17, “Aspettando Cristo”, in: Parochial and Plain Sermons, Vol. 6.

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