Crociati, schiavisti, colonizzatori… Oggi guerrafondai. La risposta di Martì, Gramsci e Fidel: la “patria grande” dei Sud (L. Rosati)

Oggi, più che mai “la guerra è il sacramento della nostra época”, afferma il politologo camerunese Achille Mbembe nel suo flgorante saggio di critica radicale della democrazia occidentale, che è anche un grido d’allerta sulla catastrofe ecologica in corso (Nanorazzismo. Il corpo notturno della democrazia. 2019, Tempi Nuovi).
La storia dell’Occidente s’identifica con quella della proiezione della sua potenza su scala planetaria. Questa proiezione ha una costante : la sua traiettoria Nord-Sud unidirezionale, immutabile. Le sue motivazioni variano secondo le epoche, ma convergono su un’idea di superiorità di civiltà che le sussume e le adatta al mutare delle circostanze. In cui variano i suoi costi in termini di vittime, anche se tutte rivelano l’assurdo d’imprese criminali compiute in nome dell’ Umanità.

Dalla fine del primo a quella del terzo secolo della nostra era (1095-1291), le Crociate hanno provocato intorno ai quattro milioni di morti. Sono il primo esempio che si conosce della Storia in cui fu coniato il concetto di “Guerra giusta”, che tanti danni farà in seguito, fino alle sue recenti applicazioni nella “Guerra contro il terrorismo”. Tramandate ai posteri comme guerre di religione, in realtà animate, ai suoi inizi, da una volontà di riconquista della penisola iberica e delle isole Baleari, le Crociate furono delle spedizioni militari promosse dai monarchi europei avidi delle ricchezze e delle terre dell’Oriente in un periodo d’esplosione demografica dell’Occidente.

L’epopea dello zucchero

Il paradosso apparente di queste terribili epopee si trova anche in alcuni dei suoi fini e dei suoi effetti, che hanno, a bien guardare, del grottesco.

Se durante la tratta transatlantica e per circa 400 anni, dal 16simo al 19simo secolo, circa 15 milioni di uomini, donne e bambini sono stati fatti prigionieri in Africa per essere venduti come schiavi al loro arrivo sulle coste delle Americhe -il tutto correlato all’emorragia del continente in cui erano stati catturati, spopolato con la violenza (tra il 1500 e il 1900, gli Africani son passati dal 17% al 7% della popolazione mondiale), e al parallelo sterminio degli abitanti nativi del continente d’arrivo -secondo la stima più bassa, circa 20 milioni di Amerindiani della sola America del Nord furono uccisi dai coloni durante l’olocausto americano dalla fine del 15simo al 19simo secolo- una delle ragioni principali fu il commercio… dello zucchero prodotto nelle piantagioni dove lavoravano i prigionieri africani ridotti in schiavitù.

Cosicché la generalizzazione del consumo dello zucchero in Europa e negli Stati Uniti monto’ in maniera vertiginosa: in Inghilterra e nel Galles, il consumo annuale per persona passo’ da due chilogrammi nel 1700 a otto all’inizio del 1800. Il tutto provocando una perversione degli alimenti e del gusto, dato che lo zucchero non serviva solo per addolcira la tazzina di caffé o di tè, ma fu introdotto anche nel grano, nell’avena e nel riso.

“Niente di tutto questo sarebbe stato possibile, dato che si parla di una dinamica commerciale su scala internazionale, senza il trasporto brutale e senza equivalenti di milioni d’Africani asserviti. Lo zucchero era divenuto sinonimo di schiavismo”, sottolinea lo storico americano James Walwin (Histoire du sucre, Histoire du Monde. Ed. La découverte), che sottolinea gli effetti di devastazione ecologica prodotti da questa corsa sfrenata… all’oro bianco: “Le foreste tropicali pluviali son completamente scomparse per far posto ai campi in cui si coltivava la canna… Lo zucchero ha creato un nuovo mondo naturale” e, aggiungiamo noi, uno stimolo crescente alla deportazione dei Neri e alla colonizzazione di quello che fu chiamato Nuovo Mondo.

L’interesse del re francese Luigi XIV per alcune delle Piccole Antille (Martinica, Guadaloupa, Santo-Domingo) nel mar dei Caraibi era motivato dallo di sviluppo di un commercio marittimo d’estensione internazionale e basato sul traffico coloniale. L’economia dello zucchero ha costituito il pivot della colonizzazione e della società antillese e fu sostenuta dalla tratta di milioni di schiavi africani (Vedere a tal proposito e per chi comprende il francese, un’illuminante trasmissione della televisione francese).

Se ne desume come uno dei capitoli più oscuri della storia -forse il più emblematico e certamente il più sanguinoso del terribile progetto di conquista occidentale del mondo, peraltro oggi riconosciuto come crimine contro l’umanità- sia legato allo sfruttamento di un consumo superfluo, destinato, almeno all’inizio, ai ricevimenti della nobiltà europea. Lo zucchero era la “cocaina di quell’epoca e i depositari della storia degli Amerindiani sapevano che serviva ad alimentare le energie dell’uomo bianco per mettre in catene il popolo nero” (Stephen Davis – Peter Simon, Reggae International. Ed. Thames and Hudson, Londra).

Il principio di colonizzazione

Quest’idea di dominio assoluto, che si é tradotta nel corso dei secoli nelle violente imprese di assoggettamento appena descritte, aveva posto le sue basi, agli albori del mondo greco-latino -antecedente storico e culturale della civiltà occidentale-, sul principio di colonizzazione.

Nella Roma antica, in cui si procedeva alla formazione dell’Impero, le colonie (termine il cui etimo rinvia alle espressioni coltivare, e significativamente abitare) erano il frutto del trasferimento di gruppi di cittadini in paesi lontani dalla madrepatria (più tardi si dirà metropoli) al fine di fondare centri ed attività commerciali in cui si riproducevano le istituzioni vigenti a Roma. I Latini lo avevano appreso dai Greci che, qualche secolo prima, a partire dal secondo millennio AC, si erano attivati nella realizzazione di una serie d’insediamenti in Asia Minore, per abitarli ed introdurvi gli ordinamenti giuridici e le tradizioni del loro paese, al fine di… incivilirli.

Un espansionismo apparentemente dettato da valori che si pretendeva superiori da parte di una potenza emergente ma che aveva in realtà bisogno di accumulate nuove ricchezze, tra cui spezie e beni di lusso, e terre.

Qui riveniamo allo schema di Cheikh Anta Diop, a cui ci riferivamo nella prima parte del nostro intervento : nell’emisfero settentrionale del pianeta, dove le comunità son dedite al nomadismo e le società rette dal patriarcato, il contesto ambiantale è più duro da vivere che nell’emisfero meridionale, le conditioni climatiche son difficili e gli spazi naturali più ridotti. Cosi’ la lotta per la sopravvivenza all’alba della civiltà ha forgiato nelle steppe indo-europee uno spirito guerriero portato all’invasione, ovviamente con l’uso della forza, di terre lontane occupate da altre genti.

L’idea di « colonia » e l’esercizio violento della colonizzazione fanno parte da secoli, anzi da millenni, del DNA dell’Occidente, un’idea corredata, come vedremo, dalla sua nozione d’Universale, confiscata al suo nascere ed imposta ovunque nel nome di una civiltà superiore, che avrebbe dovuto sussumere ed arrogarsi tutte le potenzialità ed i meriti del “progresso” e dello “sviluppo”. D’altra parte, è proprio in nome di un preteso sviluppo economico delle altrui terre che all’epoca della colonizzazione moderna, i cui primi movimenti risalgono alla fase successiva all’arrivo di Cristoforo Colombo sulle coste del cosiddetto Nuovo Mondo, Inglesi, Fran cesi, Spagnoli, Portoghesi ed Olandesi cercavano di accordarsi coi notabili dei paesi invasi per organizzarne « pacificamente » lo sfruttamento delle risorse. Sfruttamento orientato secondo i bisogni della « metropoli » e non certo per farne beneficiare le popolazioni dei paesi occu pati. E che ignorava regolarmente le più elementari norme delle leggi della natura producendo degli stravolgimenti ecologici di cui ancor oggi i paesi del Sud pagano il prezzo.

Bisogna precisare che viaggiare, navigare, andare alla scoperta di nuove comunità e di nuovi paesi con cui scambiare saperi, oggetti e prodotti, non è in sé il peccato originale delle civiltà, ma di quella che ne ha fatto strumento di dominio e di sopraffazione.

Su questo, almeno per quello che riguarda il sistema politico, in Occidente c’è di fatto un consenso generale. Un’intesa unanime sul primato della sua civiltà di fronte alle altre, ammesso che ce ne siano. E’ desolante, e poco vale chiedersi se trattasi di un’anestetizzazione delle coscienze o la scelta di un confort psicologico per esorcizzare i veleni delle paure iniettati dal potere nel corpo sociale. Tutti, a parte le rare voci discordanti, ne sono partecipi, e i partiti della « sinistra » non sono l’eccezione, anche quando si chiamano « comunisti », nel loro eurocentrismo più o meno dichiarato. Cio’ malgrado che le ragioni per farsi venire dei dubbi esistano e siano molteplici.

Nel 14simo secolo della nostra era, più di un secolo prima di Cristoforo Colombo, una flotta di Africani dell’Ovest, originari dell’Impero Mandingo (1235-1670) – a cui risale la Carta del Mandé, primo trattato dei diritti umani riconosciuto ed iscritto nel patrimonio mondiale dall’UNESCO- approdarono sulle rive atlantiche delle Americhe. E’ nel 1312, 182 anni prima del viaggio del navigatore genovese partito dalla Spagna, che il sovrano mandingo Bakari II sbarco’ in America (Pathé Diagne, Bakari II (1312) et Christophe Colomb (1492) à la rencontre de l’Amérique. Ed. Sankoré ; Ivan Van Serima, They came before Colombus, tradotto in francese col titolo Ils y étaiant avant Christophe Colomb -Ci arrivarono prima di Cristoforo Colombo- Ed. La découverte, non tradotti in italiano). Aggiungiamo che i contatti pre-colombiani tra l’Africa e l’America e le influenze africane, precedenti quindi al 1492, sulle culture Sud e Meso Americane son provati da numerose ricerche storiche, archeologiche e antropologique, come attestato da una vasta bibliografia.

La famosa e canonizzata “scoperta dell’America” da parte di Cristoforo Colombo è una delle tante imposture della storia scritta e tramandata dall’Occidente, di cui gli esepii si contano a migliaia ed alcuni fanno anche sorridere. Come quello dei manuali delle scuole nelle colonie francesi delle Antille (Martinica, Guadalupa e Maria-Galante), dove leggono « Nos ancêtres les Galois», « I nostri antenati i Galli »…

Questi paradossi tutt’altro che innocenti, dei falsi storici in verità, dimostrano l’urgenza di una battaglia dell’informazione che non si limiti all’attualità per fronteggiare e destrutturare i dispositivi del terrorismo comunicazionale di matrice occidentale, ma che si estenda ad una ricostruzione della soria più consona alla realtà.

Una seconda riflessione è altrettanto importante: quelli che dalla madrepatria africana sbarcarono nelle Americhe, probabilmente in Messico, nel 1312, non erano motivati da una volontà di conquista, ma da una sete di conoscenza che non si trasformo’ in appetito di potere e di risorse all’atto della « scoperta », del contatto con l’« altro » fin’allora sconosciuto.

E’ questo uno dei tanti episodi della storia in cui si differenziano e si oppongono i tratti distintivi culturali delle civiltà del Nord e del Sud.

La distruzione della natura

Abbiamo visto come il matriarcato meridionale sia garante d’una visione regolatrice di rapporti equilibrati e di cooperazione con le forze della natura, simbolizzata nei diversi culti che associano la figura della Madre generatrice a quella della Terra nutritrice, ruoli che evidentemente possono essere invertiti nel senso dell’interscambiabilità.

Il principio di un’umanità « terrestre » non dissociata dal cosmo, di cui è componente e non agente dominante e di sfruttamento illimitato, è sempre presente nelle culture del Sud, nel pensiero dei suoi sapienti e dei suoi dirigenti più illuminati. La consapevolezza di questa associazione indissolubile, necessaria e volutamente ignorata nel logos occidentale è felicemente presente nelle correnti contemporanee del marxismo più aperte ai contributi delle culture e delle esperienze di lotta e d’analisi dei paesi del Sud.

In un articolo recente, Luciano Vasapollo e Rita Martufi richiamano “l’attenzione sulla discussione sulla critica al modello capitalista sul tema dell”ambiente sociale e naturale’ come strumento di vita, indicando due momenti diversi ma complementari della lotta sociale : quello della difesa degli strumenti di vita e quello del cambiamento radicale delle condizioni di produzione e del superamento del conflitto capitale-natura, nelle lotte che legano e innovano le rivendicazioni tradizionali e storiche di salario, diritti sociali e dignità del lavoro con le esigenze ambientali”.

Questa tematica del conflitto capitale-natura raggiunge in effetti a quanto ricordato in un nostro precedente intervento, dove si affermava che “La comunità umana non è che una parte del cosmo”, secondo la filosofia dei Bambara, popolo dell’Africa dell’Ovest ed etnia principale del Mali. Si tratta della visione a cui si faceva cenno e che è diffusa in tutta l’Africa.

Nel suo testo già citato (pagine 22 & 23 dell’edizione francese Politiques de l’inimitié), Achille Mbembe avverte che “al centro del ripopolamento -in corso- della Terra non si trovano unicamente gli umani. Gli occupanti del mondo non si limitano più ai soli esseri umani. Più che mai, essi includono numerosi artefatti e tutte le specie viventi, organiche e vegetali”. Avvertimento che prende i toni di una premonizione terribile nelle pagine seguenti (47 & 48), dove l’autore introduce un correttivo alle teorie politiche della paura e del terrore, che lascerebbero presagire la fine del Mondo: “… la fine dell’uomo non implica necessariamente quella del mondo. La storia del mondo e la storia dell’uomo, benché aggrovigliate non avranno necessariamente una fine simultanea. La fine dell’uomo non porterà necessariamente con sé quella del mondo. Invece, la fine del mondo materiale porterà senza dubbio con sé quella dell’uomo. La fine dell’uomo sarà forse seguita da un’altra sequenza della vita…”.

Parole sui cui riflettre, dato che i rischi che planano sulla sopravvivenza del genere umano sono ormai tangibil e rimandano anch’essi a un problema di civiltà.

Il 23 settembre scorso (2022), alla tribuna dell’Assemblea generale delle NU, Shehbaz Sharif, primo ministro pakistano, ha lanciato un’accorata requisitoria contro le nazioni dette “industrializzate”, responsabili dello squilibrio climatico (in quanto emettori del diossido di carbone, CO2, gas a effetto serra, principale fattore di polluzione dell’atmosfera) di cui pagano il prezzo soprattutto le popolazioni del Sud. L’estate scorsa, il suo paese è stato vittima di drammatiche inondazioni (“Non ho mai visto un massacro ‘climatico’ di queste proporzioni”, aveva dichiarato due settimane prima il SGNU Antonio Guterres, che si era recato in prossimità dei luoghi invasi dalle acque). La catastrofe si è abbattuta su un terzo del paese con un bilancio di oltre 1600 morti. “La definizione stessa della sicurezza nazionale è oggi cambiata, ha detto Sharif, e a meno che i dirigenti del mondo non si uniscano e non agiscano immediatamente sulla base di un programma minimo, non ci sarà più la Terra per far le guerre. La natura sta contrattaccando e l’umanità non sembra in grado d’affrontare questa sfida”. ). Detto in termini più politici, il senso delle parole del dirigente di questo grande paese dell’Asia del Sud è lo stesso del discorso di Mbembe.

La folle idea d’Impero

E’ questa una situazione reale e da non sottovalutare, in particolare dopo la pandemia del Covid 19, che tutti dovremmo prendere come un avvertimento necessario sullo stato di precarietà e di fragilità della salute mondiale, e le cui cause sono state ampiamente riconosciute dipendenti dalle derive del capitalismo mondializzato : distruzione degli ecosistemi, deforestazione, urbanizzazione forsennata, agricoltura eccessivamente industrializzata, globalizzazione economica…

Da perlomeno cinque secoli, i paesi del Sud si trovano in posizione subalterna rispetto al progetto di dominanza dell’Occidente che si è imputato il comando sull’intero pianeta. Che ha eretto a sistema universale la disuguaglianza delle relazioni internazionali fondate sui rapporti di forza, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e un’economia basata sulla tirannia del denaro, dell’alienazione delle merci e del furto sul lavoro vivo.

In epoche ancora più lontane, la folle idea dell’Impero planetario ha proiettato le sue ombre devastatrici, prima dentro e poi al di là delle frontiere dell’Occidente. Dopo Roma e il Terzo Reich, il paese con le strisce e le stelle si è auto-eletto guida del mondo. Un paese che non esisterebbe senza il più sanguinoso genocidio della storia, quello degli Amerindiani, e la più importante deportazione forzata di popoli da un continente all’altro, la cui resa porta un bilancio d’almeno 50 milioni di vittime e 12 milioni di individui destinati a sparire dal rango di esseri umani.

Sorta da queste due tragedie, l’iper-potenza americana alla testa dell’asse di dominazione euro-atlantico vuole affermarsi come potere assoluto dispensatore di una civiltà superiore, l’unica che debba esserericonosciuta nel mondo contemporaneo. Il tutto dopo avec regolato i conti all’interno del suo campo (occidentale) via due Guerre Mondiali, cha hanno fatto rispettivamente 15 milioni di morti la Prima e oltre 60, compreso il genocidio degli Ebrei, la Seconda.

Se questi sono alcuni dei costi del sogno imperiale pagati dall’umanità e dalla Terra, altri se ne devono aggiungere malgrado passino sotto silenzio.

La macchina della morte

Infatti, per stabilire il suo comando sul mondo, l’Occidente ha anche bisogno di supporti nelle sue periferie. Elite pronte a confortarne i disegni sul piano locale, regionale e internazionale, ed il cui potere deve essere assicurato e protetto -almeno finché i suoi plenipotenziari non decidano di non averne più bisogno- con i dispositivi abituali della manipolazione e della coercizione.

Le popolazioni eventualmente insofferenti sotto l’autorità di questi numerosi quisling, che ricordano i prefetti delle vecchie colonie, devono essere tenute a bada, irregimentate e, nel caso, domate.

A tal fine, tutte le teorie e le metodologie « anti-sovversive » delle scuole militari americana e, in particolare, francese sono messe a disposizione di questi alleati succubi e allo stesso tempo ‘interessati’i, i cui eserciti son formati all’uopo, non per difendere le frontiere e proteggere i cittadini ma al contrario, per assicurarne il controllo con tutti i mezzi, fino a quello estremo dello sterminio dei civili.

La Francia specificamente, è titolare di una Dottrina militare detta, paradossalmente, della “Guerra Rivoluzionaria” (perché mutuata, rovesciandola di segno, dal principio del « radicamento nelle masse » proprio del pensiero maoista e del Vietminh), la quale prevede l’infiltrazione, l’azione psicologica, la deportazione, la tortura, l’uso di milizie suppletive (gli squadroni della morte..) e i massacri.

Elaborata dai generali transalpini dopo le disfatte indocinesi, la Dottrina è apprezzatissima oltre-Oceano, dove il Pentagono e la CIA ne hanno adottato i fondamenti nelle guerre medio-orientali, nella condotta della “lotta contro il terrorismo”, ma anche sul piano interno come forma di neutralizzazione preventiva della sovversione. Una sorta di « contro-insurrezione » senza insurrezione, che si apparenta ai metodi della « governance con la paura » in voga nei paesi della Vecchia Europa, Francia e Italia in primis.

La Dottrina, peraltro insegnata sul posto dagli ufficiali francesi ai colonnelli argentini che ne avevano fatto tesoro nel periodo in cui i desaparecidos e le vittime delle torture si contavano per migliaia, è stata applicata con successo in Algeria tra il 1954 e il 1962 per contrare l’offensiva del Fronte di liberazione nazionale (FLN), in un susseguirsi di vicende mediamente conosciute dal grande pubblico, anche grazie al famoso film di Gillo Pontecorvo, La battaglia di Algeri. 250 000 Algerini persero la vita e 2 milioni furono internati nei campi di concntramento; in Camerun, nella fase della « decolonizzazione » a partire dalla seconda metà degli anni 1950, nel corso di una guerra rimasta segreta fino a una decina di anni fa, in cui la pratica dello sterminio d’intere popolazioni (le cifre oscillano tra le 300 000 e le 400 000 vittime) sottoposte ai bombardamenti al napalm fu eseguita prima dall’esercito francese in prima persona, poi, in seguito all’ « Indipendenza », da quello camerunese, formato, instruito e guidato dagli alti graduati di Parigi ; in Rwanda nel 1994, prima e durante l’ultimo genocidio del ventesimo secolo, costato la vita di un milione di Tutsi, in cui l’allora presidente Mitterrand e gli ufficiali della sua « Casa Militare » con alcuni reparti particolarmente agguerriti delle Forze speciali parteciparono alla pianificazione e all’esecuzione -indiretta, e talora diretta- dello sterminio.

Oggigiorno, l’Africa resta il terreno privilegiato di sperimentazione della Dottrina della Guerra Rivoluzionaria (DGR). In molti lo sanno, ma nessuno ne parla. Tanto meno i media mainstream.

Se son riusciti a tener segreta quella del Camerun per oltre mezzo secolo, si dira’…

Perché la GR è una guerra invisibile, terreno d’intervento per eccellenza delle Forze speciali, dove l’opacità e la dissimulazione dominano mentre la “comunicazione deviante” (leggi: disinformazione fino alla forma estrema del terrorismo comunicazionale) ne è ingrediente essenziale. Tanto quanto il razzismo, usato dagli apprendisti stregoni come propulsore e combustibile per la formazione di milizie tribali che devono occuparsi di dare la cacccia e braccare le comunità consiedrate “nemiche”… “Nemiche” soprattutto dei poteri asserviti allo straniero, l’ex colono o l’Oncle Sam, che le individua come l’acqua in cui nuota il pesce della ribellione: il maoismo alla rovescia per tenere sotto controllo i popoli sottoposti al governo di dirigenti subalterni.

In Africa, la Francia, interessata al mantenimento post-coloniale della sua influenza geo-politica ed economica, ha disseminato le sue Scuole di Guerra, in particolare nella vasta regione del Sahel e in quel paese vasto come un continente e stracolmo di materie prime strategiche che è la Repubblica democratica del Congo (RDC).

In Mali, nel Burkina Faso e nella RDC, la GR imperversa mietendo vittime a migliaia. La situazione del Mali è in particolare, paradossale. Sovranista, la giunta militare al potere ha imposto la partenza dei soldati francesi, ma l’esercito continua a praticare i metodi della contro-insurrezione propri della GR. I civili sono le vittime principali della guerra contro i gruppi djihadisti e tutti i protagonisti del conflitto, nessuon esente, son responsabili di atrocità contro le popolazioni innocenti : autorità maliane, mercenari della società russa Wagner che le supportano e i combattenti dello Stato islamico.

Nella RDC, dal 2014, un ciclo interminabile di massacri di civili attribuiti a un fantomatico gruppo ribelle, in realtà fittizio, terrorizza le diverse comunità delle provincie orientali (Sud Kivu, Nord Kivu, Ituri), spopola i campi, riempie i cimiteri. Dietro i tragici eventi, la mano nera di alti ufficiali dell’esercito (FARDC) tira i fili degli squadroni della morte : il terrore come metodo di “governance”, prevenzione dell’insurrezione in una regione che è da sempre la madre di tutte le ribellioni.

Questa nuova forma di guerra contro i civili è l’esito terribile delle guerre contemporanee dichiarate dall’imperialismo occidentale dopo l’implosione dell’ex Unione Sovietica. Se queste ultime (Irak, Siria, Libia Yemen) sono tutto sommato ben conosciute, la prima lo è molto meno. Ma non bisogna pensare che sia meno sanguinosa. Nelle RDC, i morti si contano tra i 9 000 e i 10 000 negli ultimi 8 anni ; altro esempio il Mali, in cui dal mese di marzo di quest’anno (2022) sono state registrate all’incirca 900 vittime civili nei 6 mesi presi in considerazione. Dato che il conflitto è cominciato nel 2013, il tributo pagato dalle popolazioni va largamente al di là delle 10 000 vittime per avvicinarsi alle 15 000.

Per dire che il sangue versato nelle guerre occulte o ignorate -oltre al Sahel e alla RDC, si dobrebbe parlare anche del Camerun, dell’Etiopia, del Mozambico e della Birmania per lo meno- non è certo, purtroppo, meno abbondante che nei conflitti ‘principali’ sui cui si scorrno fiumi d’inchiostro e di saliva.

E per sottolineare che questa, le guerre invisibili, è un’altra ragione, -l’ultima in ordine cronologico- di denuncia del’imperialismo occidentale euro-atlantico e del suo braccio armato, la NATO. Che nella fase della tendenza unipolare si assume come la macchina della morte distruttrice di vite umane su scala esponenziale e allargata, devastarice della natura nei suoi equilibri che dovrebbero rimanere intangibili e nelle sue relazioni col genere umano.

La ripresa del multicentrismo

Una finestra di speranza si è aperta a febbraio 2022 in seguito alla guerra nell’Europa dell’Est. L’imbroglio dei vertici della NATO, che dal 2014 almeno hanno riunito tutti gli ingredienti del conflitto (chi puo’ dimostrare, in tutta franchezza, che Putin aveva una possibilità, diversa dall’invio delle sue truppe in Ucraina, per assicurare la sicurezza della Russia minacciata dalle armi dell’Allenaza atlantica alle sue frontiere ?), è stato immediamente dipanato dalla maggioranza dei paesi del mondo, che han capito il trucco degli impostori.

Gli avvenimenti che ne sono seguiti hanno giovato alla riattivazione della dinamica del multicentrismo che sta mettendo seriamente in crisi il comando unipolare perseguito dall’asse euro-atlantico e i suoi strumenti di dominazione di cui, in primo luogo, il dollaro.

L’unipolarismo stava diventando un fattore troppo pericoloso di squilibrio per le sorti del mondo. Fare scacco a questa tendenza non solo è prioritario, ma anche condizione necessaria, benché non sufficiente, perché l’umanità possa intrevedere una nuova fase di relazioni internazionali più armoniose e di giustizia sociale da parte delle sue diverse componenti.

Il multicentrismo non va definendosi, né si deve definire, come un nuovo blocco. E’ un’area di paesi alla ricerca di altri strumenti e metodi di cooperazione e di scambio, di rapporti non più dominati dalla logica della forza.

Che all’interno di quest’area si trovino nazioni, le cui politiche nei confronti dei cittadini siano allo stato attuale discutibili o anche deprecabili sotto il profilo della giustizia e dei diritti, ivi compresi quelli delle minoranze etniche -o che sul piano internazionale possano talora sostenere regimi poco frequentabili-, è, pur restando un elemento doveroso di riflessione e di critica, meno importante del fatto che tutti questi paesi, nel loro insieme, sventino la minaccia unipolare. Poiché questa è anche la condizione da cui ripartire affinché, nelle singole situazioni, le forze progressiste riprendano voce ed energie alla ricerca di società più giuste ed equilibrate, e nella prospettiva dell’estinzione progressiva dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

Il motore meridionale

I popoli del Sud, subalterni nel corso della storia ritmato dall’Occidente colonizzatore, possono essere il motore del multicentrimo. Il loro risveglio politico e culturale non data da oggi, anche se si è manifestato, secondo i casi e le zone geografiche, in tempi diversi. Basti pensare che il Venezuela si è dichiarato indipendente nel 1811 et la maggior parte dei paesi africani un secolo e mezzo dopo !

Mentre le relazioni bi e multi laterali si sviluppano con rinnovata intensità tra questi popoli, le loro profonde affinità culturali, evidenziate da Cheikh Anta Diop e da altri pensatori del Sud globale, possono essere messe in risalto, diventare il collante del mondo opposto all’unipolarismo, scavare il solco della liberazione nella redenzione. Redenzione nel senso del riscatto culturale, di identità, di civiltà, per portare lo scontro nel terreno in cui l’Occidente ha sempre operato attraverso la negazione dell’ « Altro » ridotto al rango di barbaro, sottosviluppato, povero nella migliore delle ipotesi, non solo in senso materiale ma anche spirituale. Passando da « Sterminateli tutti questi selvaggi » dell’epoca dei Conquistadores alla più recente allocuzionee dell’ex presidente francese François Mitterrand (1916-1996), a proposito del Rwanda (1994) : « In quel paese, un genocidio non è troppo importante », la considerazione dell’Occidente per i popoli del Sud non ha fatto molti progressi.

Solo le forme della dipendenza son cambiate, anche se ormai lentamente erose dal movimento liberatorio, sovranista, se si vuole, e multilateralista di cui l’ex presidente del Venezuela Hugo Chavez (1954-2013 è stato il promotore e l’ideologo.

Nella sua opera d’appropriazione violenta, l’Occidente ha confiscato le terre e le risorse ma anche lo spirito degli umani, cercando di estinguerne le facoltà mentali e distruggendone progressivamente le memorie.

Qui si trova il luogo dell’intervento dove dar battaglia sul piano della cultura e della comunicazione.

Una nuova Tricontinentale che riunisca Africa, America del Sud e Asia nella lotta per l’affermazione del multicentrismo non puo’ prescindere dallo smantellare i meccanismi della comunicazione deviante, della Storia artefatta e dei suoi effetti terroristici, immettendo negli spazi infiniti della circolazione planetaria delle informazioni, virtuale e non, quelle aderenti alle realtà fattuali, e con un raggio di divulgazione almeno pari a quello dell’avversario.

Ma opporre alle armi di manipolazione di massa -la disinformazione- la restituzione degli accadimenti nel loro svolgersi nella dimensione reale -l’informazione- puo’ non bastare se, nello stesso tempo, non si mette in atto un lavoro di riabilitazione della storia dei popoli che ne sono stati espropriati.

Anche qui, ricorriamo a Glissant che affermava che « la Storia finisce lddove comincia quella dei popoli detti ‘minoritari’ ». Un progetto globale di Università del Sapere dei Popoli del Mondo puo’ essere concepito e realizzato, tanto nel Nord quanto nel Sud, proprio per ricomporre le fratture di civiltà create nel passato, e per rendere il dovuto a tutte le nazioni con la restituzione scientifica della loro storia.

Una storia diversa nel metodo di trasmissione e nell’approccio, non più frammentati, divisionisti, né legati principalmente ai ‘grandi fatti’ e/o ai ‘grandi personaggi’. Perché non è certo un caso, e solo per fare un esempio, che, sia il pensiero bolivariano che quello panafricanista preconizzano, l’uno l’unione dei popoli e degli Stati dell’America del Sud e l’altro la medesima idea alla base della creazione degli Stati Uniti d’Africa.

E’ proprio questo il senso che si puo’ e si dovrebbe dare a degli istituti di un sapere riemergente dalle memorie vive dei popoli. Istituti che sono concepibili come Università della Pace in quanto promotori di un’idea-forza d’unità nelle diversità, di un possibile vivere comune nella cooperazione e nel confronto tra le genti. Cio’ che, detto per inciso, costituisce anche un elemento di facilitazione nella soluzione di conflitti latenti o emergenti.

Queste nuove istanze della conoscenza e dell’informazione si pongono in alternativa e in opposizione ai centri della comunicazione deviante e alla fabbricazione della Storia dell’Occidente euro-atlantico -quelle che Antonio Gramsci (1891-1937) chiamava le casematte del potere -per situarsi come casematte dei subalterni sulla via d’un processo d’emancipaziuone globale dinamizzato da un indispensabile vettore di riconquista culturale.

A guardar bene, si tratta di un processo di decolonizzazione, anche quello eminentemente culturale nei suoi presupposti, di cui il rivoluzionario sardo avevo definito i lineamenti fondamentali nell’affrontare la Questione Meridionale riguardo all’emarginazione del Mezzogiorno d’Italia. Probabilmente la metafora visionaria della questione meridionale globale, come vedremo in seguito.

Il pensiero bolivariano e l’America del Sud

Le popolazioni dei Sud e quelli che nel passato recente ne sono stati dirigenti e militanti più lungimiranti condividono questo slancio di solidarietà verso la coesione di genti di matrice comune ma separate nel corso di una Storia imposta dall’esterno.

Il venezuelano Simon Bolivar (1783-1830) può essere considerato il pioniere di questa corrente di pensiero e d’azione per l’America del Sud. Generale, rivoluzionario e statista, liberò il suo paese dal giogo dello straniero e, soprattutto, si batté pour l’indipendenza dell’insieme del Sud America. Ma individuò la possibilità di proiezione nell’avvenire dell’unità sudamericana attraverso un processo di valorizzazione e di evoluzione del potenziale culturale sommerso delle popolazioni del continente.

Bolivar riconosceva l’esistenza delle differenze di classe e quelle dovute all’origine razziale, il tutto con una particolare attenzione all’esistenza delle comunità autoctone amerindiane, e postulava forme originali di partecipazione delle masse alla gestione del potere.

Il suo esempio e le sue idee sono stati ripresi da altre figure importanti del movimento di emancipazione dell’America del Sud e dei Caraibi. In Venezuela, dove Bolivar è considerato il padre della patria, il leader deella rivoluzione bolivariana Hugo Chavez (1954-2013) si è ispirato a lui nella difesa del suo paese contro l’imperialismo, nella ricerca di un socialismo conforme alla partecipazione popolare e nel progetto d’integrazione sudamericana, che sono i punti fondamentali del suo pensiero, lo chavismo.

All’opera di Simon Bolivar si richiama esplicitamente Papa Francesco, quando esorta, in riferimento all’America del Sud, a “… comprendere che i nostri popoli sono capaci di creare, forgiare e soprattutto, sognare una patria grande che sappia e possa accogliere, rispettare e abbracciare la ricchezza multiculturale di ogni popolo e cultura”. La “patria grande” dell’America afro-amerindiana in questa visione altrettanto ‘grande’ non può che riallacciarsi ai movimenti panafricanisti che sollecitano l’unione del loro continente in uno Stato confederale.

Per mettere in luce queste empatie, che non devono sorprendere, tra i diversi continenti del Sud, Bolivar è stato di grande aiuto, un suggeritore di rilievo, se non fondamentale, nell’evidenziarle a partire dal suo continente. Per questo, la sua opera era destinata a irradiarsi oltre le frontiere americane, in particolare nei Caraibi.

“Ho un’ammirazione infinita per Bolivar. L’uomo delle difficoltà, che ha superato tutti gli ostacoli, davvero una persona straordinaria. Marti è un Bolivar del pensiero, e Bolivar fu un genio della politica, della guerra, uno statista”. Così Fidel Castro (1926-2016), l’uomo della presa della Moncada (1953) e padre della rivoluzione cubana (1959), ha definito colui che è passato alla storia come il Libertador nel libro-intervista con il comandante sandinista Tomás Borge, Un grano de maíz.

Assolutamente pertinente è in questo passaggio l’accostamento di Bolivar a José Marti (1853-1895), il poeta e militante che fondo’ il Partito rivoluzionario cubano, morto combattendo per la libertà di Cuba nella battaglia di Dos Rios e considerato eroe nazionale nel suo paese. Marti, che è l’autore della celebre canzone Guantanamera, fu un artista e un uomo politico d’avanguardia che sostenne l’uguaglianza dei popoli, degli uomini e delle razze e individuo’ tra i primi il ruolo nefasto dell’imperialismo statunitense. La​ sua opera fondamentale, Nuestra America, è il programma politico e culturale considerato come piattaforma d’educazione comune per tutti i popoli dell’America del Sud.

Un’eredità questa, che Cuba non ha mai smesso d’assumere da 63 anni e malgrado il blocco infame imposto dagli Stati Uniti. Ruolo che le è stato recentemente riconosciuto il 28 settembre scorso, quando Cuba è stata eletta alla presidenza per l’anno 2023 del Gruppo dei 77 + la Cina, istituzione delle che si occupa della difesa degli interessi del Sud nel corso della recente sessione dell’Assemblea generale dell’ONU.

Ora, il panamericanismo (quello bolivariano, da non confondere col panamericanismo egemonico degli USA) e il panafricanismo condividono un’identità comune nella sostanza ma differiscono per altri aspetti. Sul piano cronologico come si è accennato, il primo essendo antecedente del secondo di oltre un secolo. Poi per delle ragioni di composizione etnica, da cui la formulazione di strategie diversificate, più o meno complesse, sul piano dellk’iniziativa politica.

Le masse africane sono, nella loro stragrande maggioranza, omogenee in quanto popolazioni negro-africane e discendenti dei popoli nativi del continente. Lo stesso non dicasi dell’America del Sud, dove gli autoctoni convivoono con i discendenti dei coloni spagnoli e con altre popolazioni risultanti dall’incrocio dei primi con i secondi e con i Neri, i cui antenati sono i prigionieri importati dall’Africa all’epoca della tratta transatlantica. Le tragedie vissute dai due continenti (si deve considerare l’America del Sud come un vero continente, che preferiamo non chiamare America Latina per non privilegiare nominalmente, e quindi geopoliticamente, la conquiista spagnola) son diverse ed han prodotto effetti diversi.

Se il commercio triangolare -la Tratta- ha dissanguato l’Africa e sconvolto i suoi equilibri interni -ripetiamo che, tra il 1500 e il 1700, gli Africani dal 17% al 7% della popolazione mondiale, senza contere gli effetti sul piano psicologico tramandati fino alle generazioni presenti-, il Sudamerica dal canto suo è stato teatro del più grande genocidio delle storia umana. Tra il 1492 e il 1890 sono stati sterminati all’incirca 70 milioni di nativi. Cosa che non puo’ non aver lasciato il segno sui soppravvissuti, né sulle caratteristiche delle delle società sorte in seguito e con popolazioni di altre origini.

Non è compito nostro qui di rifare la Storia, né di definire una sociologia delle nazioni sudamericane. Questi riferimenti servono solo a far capire l’importanza della questione indigena, propria dell’America Meridionale, nell’elaborazione di una strategia di liberazione in sintonia con i popoli degli altri Sud.

Sotto questo profilo, è fondamentale ritornare al pensiero dello scrittore José Carlos Mariategui (1894-1930), che fondo’ il Partito socialista peruviano due anni prima della sua morte. Mariategui è il padre spirituale del movimernto politico e letterario dell’indigenismo in Sudamerica e la sua opera ha ispirato contemporanei e posteri sull’importanza del collettivismo tradizionale delle società amerindiane pre-colombiane nella riflessione critica delle società attuali del continente.

La sua elaboraziona sulla necessità di mettre in risalto le forme di rappresentazione del mondo peculiari dei popoli autoctoni, degli sfruttati e di tutti i subalterni e di integrarle nella teoria politica come fattori portanti dei movimenti d’emancipazione resta un contributo essenziale ed un arricchimento del marxismo classico con la psicologia delle masse.

I vagabondaggi del panafricanismo

Anche qui, si può tracciare la linea direzionale che collega panamericansimo e panafricanismo per lo sviluppo di teorie e pratiche suscettibili di dinamizzare la lunga marcia dell’unipolarismo, oggi all’alba del suo percorso.

Le società africane pre-coloniali sono di una grande complessità e sofisticazione. La molteplicità dei poteri e dei contropoteri si traducono in forme originali, altamente differenziate secondo le regioni, di partecipazione alle istituzioni delle comunità. Le strutture legate all’organizzazione dei culti e alla trasmissione dei saperi hanno una grande importanza e fan da contrappeso alla verticalità delle autorità. Le società iniziatiche femminili, o società segrete, le classi d’età e le associazioni dei mestieri son dei contropoteri di cui i capi tradizionali o i sovrani devono tener conto. Un re non puo’ dichiarar guerra contro un altro popolo senza l’accordo dei depositari della storia della comunità, che devono esser presenti sul campo di battaglia, o del responsabile della confraternita dei fabbri che hanno fabbricato le armi e devono benedirle.

La particolarità del continente africano è che le tracce di queste abitudini, pratiche e strutture sopravvivono nel mondo moderno e, in alcuni casi, costituiscono ancora dei poteri intangibili nel quadro dello Stato moderno ereditato dall’Occidente.

Questi antichi saperi vivono anche nelle teorie e nelle analisi dei padri e dei seguaci attuali del panafricanismo. Essi sono alla base dei valori fondamentali di spiritualità (nel senso di una trascendenza dei legami con la natura e col passato) e di solidarietà (nel senso della coesione e dell’ordinamento della società degli umani in rapporto con l’ambiente) che si differenziano dai valori oppositivi dell’Occidente, che sono il materialismo (da non confondere col materialismo storico e dialettico che sono altra cosa) e l’individualismo.

Se Cheikh Anta Diop è uno dei promotori del panafricansimo, che concepi’ l’idea degli Stati Uniti d’Africa nel periodo immediatamente successivo alle lotte per l’Indipendenza, altri leader del continente diedero il loro contributo a quest’idea di un‘Africa unita al di là delle frontiere lasciate in eredità dalla colonizzazione.

Kwame Nkrumah (1909-1972) proclamò l’Indipendenza del Ghana, il suo paese, e ne fu il primo presidente eletto, nel 1960. Alla sua concezione del panafricanismo diede il nome di “coscienzialismo”, una dottrina in cui i principi del marxismo si incontrano con gli elementi collettivistici delle tradizioni africane.
Nondimeno, l’idea panafricanista è stata spesso coltivata, se non addirittura lanciata, al di fuori del continente. La cui storia negli ultimi cinque secoli, marcata dalla Tratta, ha messo in evidenza il ruolo di una diaspora di afrodiscendenti -conseguenza di quest’ultima- nel formarsi di una molteplicità di correnti, ivi compreso sul piano culturale, che hann promosso, con contenuti e approcci variabli, l’esigenza dell’unità di tutto il Mondo nero. Il fenomeno non ha equivalenti in Sudamerica, e neppure in Asia, continenti che sono stati risparmiati dalla massiccia deportazione forzata cha ha conosciuto l’Africa.

Panafricanismo va declinato al plurale e i suoi avatar sono molteplici. Come spiega lo storico Amzat Boukari Yabara -la cui doppia origine del Benin e de la Martinica, l’Africa e i Caraibi, ben simboleggia le diverse incarnazioni del concetto di panafricanismo, quest’ultimo è un “enigma storico. La sua data e il suo luogo di nascita divergono in funzione dei criteri adottati nel definirlo. La sua stessa definizione varia tra il concetto filosofico nato con i movimenti emancipatori ed abolizionisti (dello schaivismo, ndr) della seconda metà del 18simo secolo, un movimento socio-politico costruito e sviluppato dagli Afro-Americani e dagli Antillesi tra la fine del 19simo secolo e la fine della Seconda Guerra Mondiale, o una dottrina dell’unità politica formulata dai nazionalisti africani nel quadro delle lotte coloniali ed indipendentiste” (Africa Unite, Ed La découverte. Parigi, 2014. La traduzione è nostra).

Lo psichiatra e saggista Frantz Fanon, autore delle due opere capitali I dannati della terra e Pelle nera e maschera bianca (Les damnés de la terre e Peau noire et masque blanche) era martinichese ; militante anti-razzista, membro del Partito comunista degli Stati-Uniti d’America e organizzatore del Congresso panafricano di Manchester (1945), in Inghilterra, George Padmore (1903-1959) era nato nell’isola di Trinità nelle Piccole Antille (Caraibi); l’emblematico Marcus Garvey (1887-1940), « The Black Moses » profeta del movimento rastafari e predicatore del ritorno di tutti gli Afrodiscendenti in Africa, era giamaicano.

I percorsi del panafricanismo s’intrecciano con le storie di tutti i popoli del Sud e son rivelatori della loro unità. La Patria Grande di Simon Bolivar e di José de San Martin -che comprendeva anche l’America centrale, i Caraibi e il Messico-, trascende le frontiere nel suo riferirsi all’America del Sud afro-amerindiana.

Il presidente Chavez, forse la principale figura di rivoluzionario anti-imperialista di questo Terzo Millennio, dopo aver promosso l’Alleanza bolivariana per i popoli delle Americhe (ALBA), sviluppo’, nell’ultimo periodo del suo mandato, numerosi programmi di partenariato culturale, comunicazionale, energetico ed economico coi paesi africani. Il 22 febbraio del 2013, due settimane prima della sua morte, Chavez scrisse una lettera d’addio ai presidenti africani, riuniti in Guinea Equatoriale nel quadro della Terza conferenza America-Africa, in cui affermava che « dal più profondo della mia coscienza, l’America del Sud e l’Africa sono un solo popolo » (ripreso da Amzat Boukari-Tabara, opera citata). Il presidente, prima di lasciarci, aveva inaugurato un’altra alba, quella dell’afro-bolivarismo.

Il Sud di Antonio Gramsci

La morte gli aveva anche impedito di portare a termine una sua ricerca sull’opera di un rivoluzionario e comunista italiano, Antonio Gramsci. Perché Gramsci ? E perché gli studi dei suoi scritti son fioriti e fioriscono numerosi in Sudamerica in particolare, ed in altre parti del mondo fino in Inghilterra ?

Perché, e questo avviene soprattutto presso studiosi e militanti dell’emisfero australe, « La questione meridionale », che resta la sua opera principale, è interpretata come un testo che trascende, nelle sue proiezioni analitiche, il Mezzogiorno d’Italia a cui fa riferimento diretto, per irradiare al di là del Mediterraneo come una felice intuizione di un Sud globale alla ricerca della sua redenzione. Di un Sud sottoposto con la violenza agli stessi processi di colonizzazione che hanno segnato l’espansionismo devastatore del Nord lungo i secoli.

Poi, c’è un’altra ragione. E’ proprio a causa dell’individuazione del fatto coloniale come attuazione del dominio, e che è inscindibile dall’acculturazione come veicolo dell’annichilimento dei subalterni, che Gramsci stabilisce nella battaglia culturale e nel ruolo degli intellettuali usciti dalle classi e dai popoli oppressi le condizioni essenziali della liberazione e della riconquista dell’egemonia. In questo, è esattamente e completamente in sintonia con le figure principali del panamaricanismo sudamericano e caraibico, come José Marti, Simon Bolivar e José Carlos Mariategui.

Nei Quaderni dal carcere, Gramsci afferma che i padroni del nord industrializzato, in accordo coi grandi latifondisti del sud, danno “alle popolazioni lavoratrici del Mezzogiorno una posizione analoga a quella delle popolazioni coloniali” e che si tratta quindi di “restituire una soggettività ai subalterni… facendosi portatrice di una propria tradizione e di una propria cultura”.

Cosa di diverso diceva José Martì, quando sosteneva di dover “formare una intelligentsia conoscitrice del proprio popolo e che non si consacra a copiare o che viene dall’esterno”?

Martì, comme Gramsci, “era un grande uomo di lettere e difendeva ardentemente la diffusione del sapere e della cultura”. In seguito all’accesso al potere nel 1959, il governo rivoluzionario di Cuba generalizzò per tutto il popolo un’éducazione gratuita e di alto livello. Rendendogli omaggio, un giorno Fidel Castro disse che “La rivoluzione è la figlia delle idee e della cultura”.

Per questo Gramsci non ha mai smesso di denunciare strumenti e modalità del dominio ideologico approntati dai tenori dello sfruttamento e dell’oppressione: “È noto quale ideologia sia stata diffusa in modo capillare dai propagandisti della borghesia nelle masse del nord : il sud è la palla di piombo che impedisce un più rapido progresso nello sviluppo civile dell’Italia ; al sud ci sono esseri biologicamente inferiori, semibarbari o barbari completi, per destino naturale ; se il mezzogiorno è arretrato, la colpa non è del sistema capitalista o di qualsiasi altra causa storica, ma della natura che ha fatto dei meridionali poltroni, incapaci, criminali, barbari, temperando questo destino di una patria matrigna con l’esplosione puramente individuale di grandi geni, che sono come palme solitarie in un deserto arido e sterile. (Antonio Gramsci, La questione meridionale, Editoriale Riuniti, 1974, Roma, pp. 135-136).

***

Il Sud, terra di speranza, esiste al di là dei suoi limiti, confonde le frontiere geografiche, scavalca mari, oceani e, come in un’implacabile nemesi storica, confluisce nelle terre degli invasori, occupanti, “civilizzatori”. Onda di ritorno dell’onda d’urto della conquista, porta il fermento della liberazione popolare e terrestre, accompagnata da un’irriducibile volontà di decolonizzazione degli spiriti, ovunque abitino gli indigeni del pianeta e i loro figli.

Pensando al tempo della riconciliazione tra gli umani e con la loro « madre benemerita, la natura ».

Epilogo

L’unità culturale dei popoli dei Sud nella prospettiva politica multipolare su base Tricontinentale ha un suo fondamento specifico nell’animismo. L’animismo è, se si vuole, un sistema di credenze ancestrali, ma che in Africa e nei Sud è sopravvissuto all’avvento dei monoteismi, le religioni rivelate. L’animismo strutturava le società antiche e le sue tracce sussistono nel mondo contemporaneo. E’ una scienza della natura e delle relazioni con la natura, i cui frammenti sopravvivono nella memoria nei saperi degli abitanti del grande Meridione in una dimensione di spiritualità e di armonia tra gli esseri e il creato.

Tanti anni fa, Akonio Dolo, un artista Dogon – i Dogon sono un’etnia del Mali i cui membri vivono nella falesia di Bandiagara -, attore in una troupe teatrale internazionale – ci disse: “C’è un messaggio nelle culture africane, che è comune a tutte. Ma permette anche ai Neri di entrare in contatto con gli altri popoli. Così, nella nostra musica, c’è almeno una cellula o un accento che si avvicinano, per esempio, alla muscica… tailandese. Se l’animismo fosse ancora alla base della cultura di tutti gli esseri umani, si potrerbbe sicuramente trovare una forma di comunicazione universale. Tra i popoli animisti non ci sono frontiere rigide, né fiumi che non si possano attraversare”. Terra di speranza, dicevamo…

Luigi Rosati

Crociati, schiavisti, colonizzatori… Oggi guerrafondai. La risposta di Martì, Gramsci e Fidel: la “patria grande” dei Sud (L. Rosati) – FarodiRoma